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UNA FINESTRA SULL’AVVENTURA

da | Gen 8, 2022

La squadriglia Bisonti del V … 1° aveva ricevuto un preciso « Ordine di missione » dal capo riparto, per un’uscita di due giorni, in piena stagione primaverile.
L’ordine parlava chiaro:
« Raggiungere, con l’autoservizio di linea (in partenza alle ore 16), la fermata prossima al chilometro 35 della strada provinciale …;
percorrere a piedi ancora 200 metri in direzione sud, poi imboccare il viottolino (sentiero CS »! rosso) che scende a sinistra verso il bosco;
fermarsi entro il bosco nella prima radura ed aprire il dispaccio principale (A).
Equipaggiamento personale: codice 2.
Equipaggiamento di Sq.: codice Alfa.
Viveri: razioni Y e H.
Biglietti di andata e ritorno per la corriera: tariffa 3.
Lasciare sul palo della segnaletica CS21 rosso il contrassegno adesivo della squadriglia per indicarne il passaggio.
Tutto aveva funzionato perfettamente fino alla radura. I colori ed i profumi della primavera stimolavano un senso di euforia e di gioia, difficilmente speri-mentabili fuori della vita scout e delle sue avventure in piena natura.

UNA FINESTRA SULL’AVVENTURA

La squadriglia si sentiva perfettamente affiatata e capace di affrontare una missione impegnativa. Anche i più giovani non vedevano l’ora di dimostrare le loro capacità tecniche, acquisite ed affinate con impegno costante nelle attività degli ultimi mesi.
Il caposquadriglia con autorità piantò il guidone per terra, nel centro dello spiazzo ed estrasse dalla borsa della topografia il famoso dispaccio. Sembrava che anche le cime degli alberi circostanti si piegassero per seguire con curiosità i movimenti degli scouts.
Il plico conteneva una carta topografica con sottolineature a colori di alcuni percorsi; una tabella oraria per la giornata; l’indicazione del luogo ove cucinare e pernottare con i ripari di fortuna (poncho e telo-tenda personale); le osservazioni di topografia e della natura da compiere in quel pomeriggio e un altro plico da aprire alle ore 7 del mattino seguente.
Il tutto era completato da una riflessione da leggere insieme prima di dormire e naturalmente anche da una « busta soccorso » (con istruzioni in chiaro), da aprire solo in caso d’emergenza.
Per il momento tutto sembrava chiarissimo e semplice, per cui la squadriglia riprese il cammino con la convinzione non espressa, ma chiaramente percepibile, che « Adesso faremo vedere noi ai Capi che cosa sanno fare i Bisonti! ».
Tutto procedeva regolarmente, anche troppo, ma …
Dopo un quarto d’ora il topografo avvertì che, secondo i suoi calcoli eseguiti sulla carta topografica, ormai il bosco doveva finire per lasciar posto ad un terreno scoperto.
Tutti avvertirono in quel momento un cambiamento d’atmosfera: era come se fossero entrati in un ambiente irreale, caratterizzato da uno strano chiarore, come se il bosco stesse veramente finendo, mentre gli alberi, al contrario, diventavano sempre più fitti e diversi dai precedenti. La diversa atmosfera la si percepiva chiaramente anche a fior di pelle, con un senso di disagio.
Anche la segnaletica del CAI era scomparsa da un po’ di tempo.
Il sesto di squadriglia poi s’azzardò a dire seriamente di aver notato delle orme di bisonte. Naturalmente la battuta suscitò una grande ilarità, non molto gradita, a dire il vero, da chi l’aveva pronunciata: il « sesto », infatti, pur essendo giovanissimo, dedicava qualche ritaglio del suo tempo alla raccolta di tracce e ad altre osservazioni naturali connesse, per cui si sentiva, e a ragione, un competente in materia.
L’atmosfera intanto sembrava caricarsi sempre più di elettricità. Mentre all’inizio l’attraversamento del bosco aveva suscitato entusiasmo, ora tutti non vedevano l’ora di uscire da quella situazione che, minuto dopo minuto appariva sempre più irreale.
Tutti affrettarono inconsapevolmente il passo finché laggiù, oltre gli alberi, finalmente scorsero un chiarore che annunciava davvero la fine del bosco. Gli ultimi metri furono percorsi quasi di corsa.
Usciti allo scoperto, gli scouts si sentirono come scaricati dalla tensione precedente e pervasi da una grande calma. Era come rientrare in se stessi dopo una prova estremamente impegnativa. Tuttavia il caposquadriglia, ancora con un certo timore, estrasse la carta topografica, l’osservò attentamente, poi, con comprensibile disagio, dichiarò di non esser in grado di riconoscere il paesaggio: tutto sembrava diverso, molto diverso.
Eppure lungo il tragitto precedente nessuno aveva notato un altro sentiero o un’altra deviazione possibile.
Il panorama ora visibile non sembrava che potesse collegarsi in qualche modo con quello lasciato all’entrata del bosco, meno di un’ora prima.
In lontananza si vedeva anche un fiume, che sulla carta topografica proprio non era segnato; inoltre le nozioni geografiche regionali studiate a scuola escludevano la sua esistenza.
Il secondo propose, secondo le regole, di mandare indietro due « volontari » per controllare il percorso compiuto. Nessuno si offrì e la proposta fu subito scartata, anche perché sembrava più prudente non separarsi. Insieme, tuttavia, tentarono di fare una breve ricognizione all’indietro, ma ben presto vi rinunciarono poiché nessuno riusciva più a riconoscere il bosco appena attraversato, sia pure in senso contrario.
L’euforia della partenza e la carica elettrica percepita nel bosco lasciarono posta ad un nervosismo diffuso e giustificato, per cui il caposquadriglia chiese a tutti di sistemarsi in cerchio, d’impugnare insieme il guidone e di lanciare l’urlo di squadriglia, come si era usi fare nei momenti difficili.
Ristabilita in qualche modo la calma, gli squadriglieri decisero di accamparsi al bordo del bosco e di dormire insieme, costruendo un riparto unico coi teli-tenda personali, uniti tra loro, come varie volte provato nelle riunioni di reparto.
Prima che scendesse il buio, il caposquadriglia e il vice, esplorarono con il binocolo tutto quanto era visibile all’intorno, ma non riuscirono a scoprire né una casa, né un traliccio, né altre costruzioni.
Non fu difficile procurare della legna secca per cucinare secondo le istruzioni. Il bosco era allo stato selvaggio e non vi erano segni di attività umana.
Data l’abbondanza di legna, qualcuno propose di mantenere acceso il fuoco tutta la notte per tenere lontani gli animali selvatici, come raccontato sulle pagine del « Giornale delle avventure e dei viaggi », stampato all’inizio del novecento e ritrovato rilevato tra i libri del nonno.
Il caposquadriglia decise per il no, onde evitare « altre presenze » e comunque le occasioni d’incendio. Le preghiere furono recitate molto sentitamente. Vi lascio immaginare come trascorse la notte. Alle prime luci dell’alba erano tutti in piedi e pronti a muoversi con sollecitudine, dopo aver dato una sistemata al terreno. Il solito sesto tentò di far notare che il cielo si era schiarito con anticipo sull’orario normale, ma nessuna fu in grado di rispondere e riprendere l’osservazione per mancanza di recenti esperienze sulle albe primaverili.
Il fiume sembrava la meta più ovvia per potersi meglio orientare.
Durante l’avvicinamento individuarono anche una sorgentina per rifornirsi d’acqua. Stranamente non appariva curata da mano d’uomo e il terreno circostante, impregnato d’acqua, era segnato da molte e diverse tracce d’animali selvatici, con grande gioia del « sesto », che poteva così confermare la sua osservazione messa in dubbio il pomeriggio precedente. Per procedere era necessario aprirsi la strada attraverso una bassa vegetazione che non mostrava segni di lavoro umano.
Come Iddio volle, arrivarono al fiume, che si rivelò più ampio di quanto era apparso da lontano e che non poteva certamente identificarsi con qualcuno dei torrenti che attraversano la provincia di … . Tutti conoscevano la geografia della propria regione e mai avevano sentito parlare di un fiume di quella portata.
« Comunque – disse il « terzo », altro elemento culturale della squadriglia – lungo i fiumi si sviluppano le attività umane e comunque i fiumi sono attraversati da ponti stradali, per cui non ci rimane che seguire il corso ».
A questo punto si riproponeva il problema perché occorreva decidere se risalire o discendere il corso d’acqua.
Scelsero con il sistema della paglia corta e della paglia lunga. Anche gli ebrei nell’A.T. ricorrevano qualche volta a questo sistema.
Le sponde sembravano incontaminate e per quanto tutti avessero intensificato la loro attenzione per scoprire qualcosa, proprio non si notavano costruzioni.
« Vuoi scommettere – disse il « terzo » – che siamo capitati in un Parco Nazionale?».
« Ma qualche parco? – intervenne il caposquadriglia – nella nostra regione, così vicino a casa, non c’è nessun parco … ».
« Ma neppure un fiume – riprese il « terzo » – eppure il fiume lo abbiamo davanti agli occhi e non abbiamo viaggiato in elicottero. Abbiamo camminato a piedi e non possiamo esserci allontanati tanti chilometri … ».
« Allora, siamo capitati in territorio indiano – intervenne il « sesto », quello delle tracce di bisonte, che non aveva ancora tracciato bene nella sua fantasia il confine tra la realtà e l’immaginazione.
Altra risata, ma anche altra raggelata poiché, avendo nel mentre percorso un’ansa del fiume, era loro apparso proprio un accampamento indiano, mod. John Ford.
« Giù tutti – ordinò perentoriamente il caposquadriglia – e non fatevi vedere! ».
Sulla sponda opposta c’erano proprio i tepee, le donne che lavavano, i cani che scorazzavano, i cavalli nei recinti, i fuochi accesi e un totem.
« E ora che facciamo? – fu la domanda rivolta sottovoce da tutti al caposquadriglia, e con maggiore preoccupazione dal « terzo » … che aveva una chioma alla moda, cioè un po’ lunghetta.
« Ragazzi mostriamoci tranquilli e pacifici siamo ormai nel 2000, non ci sono più indiani pericolosi. Faranno parte di un circo. Andiamo a chiedere informazioni.
Comunque mettete le accette e i coltelli negli zaini, poi cerchiamo un guado ».
Intanto la presenza degli scouts era stata notata anche dall’altra sponda e annunciata da un grande abbaiare dei cani.
Non tardarono a comparire sulla scena anche degli uomini con l’arco in mano.
Dobbiamo riconoscere che la squadriglia, forse per incoscienza o forse per imitare lo zio Zeb di tanti Western, ritrovò il suo spirito e si avviò compatta, guidone in testa, verso il suo destino nel campo indiano.
Forse fu quella tranquillità che li garantì presso gl’indiani o forse fu proprio la sagoma del bisonte, disegnata in rosso sul guidone e stranamente rassomigliante ad alcune decorazioni riprodotte sulle tende indiane e sul totem. Qualcosa evidentemente univa gli scouts ai pellirosse di quella tribù. E poi si vedeva che i nostri erano sì dei ragazzi, ma anche abituati a presentarsi con un certo stile, che non so come si chiami in dialetto pellerossa, ma che certamente poteva esser motivo di fiducia anche presso quelle popolazioni nordamericane.
Intanto il campo indiano si era mobilitato e i nostri, guardando il fiume, si trovarono a dover passare tra due file d’indiani grandi e piccoli, maschi e femmine, tutti chiassosi.

Qualcuno rideva, qualche ragazzino faceva le linguacce ma nel complesso non pareva ci fosse un’atmosfera ostile; anche se non mancavano degli atteggiamenti di prudenza.
Finalmente arrivarono davanti al capo e ai suoi aiutanti, ben riconoscibili per gli ornamenti classici e per la riservatezza dei gesti. Il caposquadriglia sorridendo tentò di salutare in buon inglese senza ottenere però risposta. Il vice tentò allora con il francese ottenendo il medesimo risultato; sembrava che quei pellirosse non capissero l’inglese e il francese più … del bolognese.
Allora il caposquadriglia ebbe un lampo d’ingegno e mise la mano destra sul cuore come aveva visto fare tante volte da John Wayne in simili circostanze.
Il capo rispose con ugual gesto e tutti capirono il significato pacifico e ospitale di tale saluto. Gli scouts notarono anche una particolare attenzione del capo rivolta al guidone o meglio al bisonte raffigurato, forse il vero lasciapassare.
Ai nostri ragazzi non era nemmeno sfuggito che l’abbigliamento e le attrezzature degli indiani non erano affatto moderni, anzi … Non un fucile, né un mezzo di trasporto; le tende e i vestiti erano tutti di pelle, i tegami di coccio: sembrava di essere arretrati di qualche secolo.
E poi, come mai quei pellirosse non comprendevano l’inglese?
Era come se per loro il tempo si fosse fermato o che la civiltà non fosse mai giunta in quel territorio, fuori dalle carte topografiche e lontano nel tempo e dello spazio in cui sarebbe stato più logico trovarli.
Altrettanta e forse maggiore meraviglia destarono negli indiani le attrezzature, l’abbigliamento e l’equipaggiamento degli scouts: le accette, la sega, i coltelli, le pentole in alluminio, i teli tenda mimetici, le scarpe, le borracce, ecc.
Nessun interesse invece per gli orologi e le macchine fotografiche, apparentemente oggetti di uso sconosciuto. Per meglio comprendere provate ad immaginare come ci comporteremmo noi in presenza di un gruppo di ragazzini « marziani », capitati per caso in mezzo a noi, e come si comporterebbero loro.
Rotto l’indugio iniziale, gli scouts e gl’indiani riuscirono, a comprendersi nelle cose più semplici, usando prima qualche segno molto espressivo, poi qualche parola insegnata reciprocamente.
Ogni ragazzo fu assegnato ad una diversa famiglia, ad una diversa tenda e all’attenzione dei coetanei.
Più difficile fu l’adattarsi ai pasti secondo il menù pellerossa, ma occorse far buon viso, con la consapevolezza che gli ospiti dovevano esser alquanto permalosi (almeno secondo i libri letti a casa).
Il pomeriggio passò rapidamente, occupato dalla visita al campo: c’erano da vedere e da sperimentare le canoe di corteccia di betulla, la lavorazione delle coperte di pelle di bisonte e d’orso, la confezione delle tuniche di daino e dei mocassini, ecc. ecc.
Gli scouts erano tanto fuori dal tempo da aver perso il senso della sua misura e così, senza accorgersene, furono raggiunti dal tramonto. A quell’ora avrebbero dovuto già trovarsi sulla corriera del ritorno e invece erano ancora impegnati nello scambio di cortesie con i pellirosse. Accennarono un proposito di partenza, ma gli ospiti fecero conto di non capire e intanto preparavano evidentemente una festa serale. Anche lo stregone, con gesti significativi, cercò di spiegare che avrebbe indicato lui il momento adatto. Non certo quella sera, forse domani o anche il giorno successivo: occorreva avere il permesso delle stelle e del tempo…
* * *
Spostiamoci ora per andare su di un altro scenario: quello della sede scout, presso la quale erano in trepida attesa il capo ed alcuni genitori.
All’ora stabilita ovviamente la squadriglia non rientrò e nemmeno un’ora dopo o dopo due ore.
A quel punto scattò il piano d’emergenza per il recupero degli scouts: il capo e un genitore raggiunsero in auto la fermata della corriera e scesero per il viottolino, raccogliendo il segnale di passaggio, che non ritrovarono nei punti successivi stabiliti.
A mezzanotte partirono il capo clan ed alcuni rovers capaci.
Durante la notte non si trovarono tracce e neppure la mattina successiva, per cui si dovettero allertare anche i carabinieri e la Protezione Civile, che intervennero con un elicottero, ma anche loro senza alcun risultato.
Gli scouts non si trovavano, nessuno li aveva più visti dopo che erano scesi dalla corriera; sembravano spariti nel nulla: non uno, ma sette ragazzi!
Nessuna traccia fu rilevata sul terreno in cui avrebbero dovuto pernottare.
Immaginate come aumentava, ora dopo ora, l’ansia dei familiari, dei capi scout e dell’opinione pubblica, coinvolta ormai dai mezzi di comunicazione, che si erano impadroniti della vicenda. Il giorno successivo i servizi speciali erano nelle prime pagine della stampa nazionale e della TV, e si mise in moto una grande organizzazione di ricerca ma sempre con esito negativo e con progressivo aumento di preoccupazione. Non potevano esser spariti sette ragazzi in un territorio conosciuto e frequentato.
Il terzo giorno poi, mentre i nostri giovani erano impegnati con i loro coetanei pellirosse in un corso accelerato di usi, costumi e tecniche indiane, si mobilitò l’opinione pubblica mondiale, si riunì il Comitato Centrale scout e fu organizzata un’ulteriore battuta a tappeto nella zona interessata alla vicenda.
I Bisonti, a loro volta preoccupati, avevano sperimentato l’impossibilità di uscire dal territorio. Lo stregone intanto sorrideva e solo nel mattino del settimo giorno fece capire ai ragazzi che era giunto il momento di prepararsi e di lasciare il campo per ritornare a casa.
I saluti furono commoventi; gli scouts lasciarono in dono alcuni attrezzi, le pentole, due teli-tenda e qualche altro oggetto personale ed ebbero in cambio delle corna di bisonte decorate, delle collanine e qualche altro prodotto dell’artigianato indiano.
Furono accompagnati fino al bordo del bosco e qui diedero l’addio alla tribù, con la consapevolezza che non si sarebbero mai più rivisti.
Man mano che la squadriglia s’inoltrava di nuovo nel bosco, ma in direzione opposta all’andata, tutti riprovarono la sensazione come di piccole scariche elet-triche sulla pelle e poi, dopo un lampo nero, improvvisamente il paesaggio circostante ritornò ad apparire sempre più familiare e conosciuto. Senza difficoltà ulteriori arrivarono al famoso segnalino del CAI.
« Ragazzi, siamo ormai a casa! » – commentò il caposquadriglia con una dose di commozione.
Intanto sulla strada, all’altezza della fermata della corriera, un cronista televisivo, con ricchezza di attrezzature, stava spiegando in diretta che le autorità avevano deciso di abbandonare le ricerche poiché in sei giorni non era stato possibile scoprire alcun indizio per risolvere quello che ormai era considerato « il mistero del duemila».
Il caposquadriglia capì subito la situazione e così comandò ai suoi uomini, appena risaliti sulla strada:
« Siamo Bisonti! si procede con stile e si canta l’inno di squadriglia ». Poi mise in testa le penne d’aquila avute in regalo.
E così il mondo intero assistette in diretta al ritorno di una vera squadriglia scout, che era stata « chissà dove ». Per qualche giorno il mistero rimase tale e quale. I nostri ragazzi furono interrogati anche separatamente da vari personaggi: poliziotti, cronisti, professoroni, genitori e capi scout.
La versione unanime era quella che era; nessuna contraddizione fu rilevata nei racconti degli scouts, ma pochissimi si dichiararono disposti a credere ai Bisonti, che furono anche minacciati di castighi per aver prolungato la loro uscita, con conseguenze… mondiali.
I genitori, visto che tutto era finito bene, dopo tanta angustia, decisero per il perdono.
Non furono presi in considerazione gli oggettini indiani, riportati dai ragazzi, che avrebbero potuto avvalorare il racconto. Furono considerati paccottiglia da banchetto per souvenir turistici. Non fu possibile mostrare delle fotografie, che pure erano state scattate dalla squadriglia nel campo indiano, perché qualcuno curioso, evidentemente un pellirossa che non ne conosceva l’uso, aveva aperto la macchina per vedere cosa c’era dentro. Così le pellicole si erano sciupate.
Fortunatamente intervenne sul caso anche il nostro Professore Fantasio Pomponazzi, del Centro Studi Baden-Powell e noto studioso del West.
Convinto che occorresse dare ai ragazzi riconoscimento della loro sincerità ed anche un premio per aver superato con coraggio e competenza una grande prova, si dedicò a risolvere autorevolmente il mistero. Scoprì che su una rivista fantascientifica canadese, conosciuta come seria, era stata pubblicata una relazione di un noto professore bavarese, secondo il quale il vero problema del cambio di millennio non poteva essere quello del famoso « baco », ma quello di una finestra spazio-temporale che si sarebbe aperta e richiusa imprevedibilmente entro l’anno a causa di un piccolo errore astronomico nei difficili calcoli degli scienziati.
Evidentemente i nostri eroi erano capitati al posto giusto e nel momento giusto per entrare e uscire da quella finestra, che li aveva provvisoriamente trasferiti nel West del 17° secolo.
Ma come spiegarlo ai genitori e ai quadri associativi?
O forse tutto il racconto è uscito dalla fantasia di qualcuno che considera sempre lo Scautismo come una finestra per entrare nell’avventura!

Annunzio
(da Esperienze e Progetti nr 134)

 

È anche vero che in un piccolo museo etnografico di una cittadina del Wyoming sono conservate, fin dalla fine dell’ottocento, una pentola di alluminio ed un’accetta con marchi italiani del nostro tempo, ma ritrovati presso una piccola tribù indiana che li aveva in uso da tempo immemorabile. Nello stesso museo è in mostra una antica pelle di bisonte tagliata in forma quadrata e tinteggiata con colori mimetici, simili a quelli dei teli-tenda mod. 29 del nostro esercito e usati anche dai Bisonti del V… 1.
Mah!?!

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