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Pluralismo religioso, Intercultura ed educazione all’altro. Quarta ed ultima parte.

da | Giu 26, 2017

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Stessa cosa sarà per l’intercultura in sé, frutto dell’incontro di più razze, lingue, usi e costumi, in vista di una comune cooperazione mondiale tra le nazioni: se la seconda guerra mondiale sembrò sconfessare le speranze di B.P., che morì nel 1941 con il rimpianto di non essere stato ascoltato, ci si rese poi conto che le parole del fondatore dello Scoutismo furono profetiche, come quelle di tutti i profeti di pace. Nel gennaio 1935, B.P. inviò un messaggio radiofonico al popolo americano:

La rivelazione che mi ha dato più sorpresa e soddisfazione nell’intero raduno [del jamboree australiano]è stato il notevole spirito di amicizia mostrato reciprocamente da tutte le varie razze ivi riunite. C’è stato uno scambio continuo di disponibilità reciproca e di gesti di allegro cameratismo. E i ragazzi si sono resi conto della fraternità del Movimento mondiale cui essi appartengono. Quale contrasto con i sospetti e le animosità reciproci che attualmente prevalgono tra i politici europei. Questi sentimenti sembrano derivare in grande misura da un gretto ed esagerato nazionalismo e dalla paura, fomentati ulteriormente da una stampa di bassa lega alla ricerca di titoli sensazionali: tutti fattori che contribuiscono a precipitare la guerra, senza che ve ne sia alcun motivo reale. Eppure se l’educazione e la religione avessero condotto questi stessi uomini politici o i loro popoli a mettere in pratica la fiducia e la buona volontà reciproche non vi sarebbe alcun pericolo di guerra. Con un’adeguata educazione del ragazzo non vi dovrebbe essere molto bisogno di prigioni o di dottori; con un’adeguata educazione delle nazioni non vi dovrebbe essere bisogno di eserciti o di marine militari. L’educazione ha oggi il difficile compito di insegnare ai giovani come vivere in un momento in cui l’evoluzione sociale e le condizioni di vita cambiano così rapidamente; ma è evidente che gran parte della formazione scolastica tradizionale è scomparsa, e anche che, in un senso generale, la razza umana non è ancora civilizzata. Non fa particolarmente onore né a noi né al nostro modo di educare i nostri figli il fatto che si debba ancora ricorrere a metodi primitivi per la risoluzione dei nostri litigi. Molti Paesi insegnano ai loro figli il patriottismo, ma troppo spesso si tratta di falso patriottismo, che si contenta di agitare bandiere e di spingere in alto il proprio Paese sopra gli altri. Uno spirito più ampio e generoso è necessario per un patriottismo più autentico, tale da riunire, con la pratica di uno spirito di reciprocità disinteressata, i vari settori e fattori insieme in un tutto unico, e tale da estendere tale spirito così da guardare al di là delle frontiere o degli interessi particolari del proprio Paese e da considerare con comprensione le aspirazioni degli altri. Il vero patriottismo saprà vedere le cose dal punto di vista del proprio vicino oltre che dal proprio, e cooperare con lui anziché prepararsi a combatterlo. Naturalmente penserete che questo idealismo sia assai bello, ma utopistico e non attuabile. Dobbiamo ricordare tuttavia che nessun serio tentativo è stato fatto finora per istillare tali idee nella mente e nel modo di agire della generazione attuale o di quella futura, le quali non sono mai state educate a tale spirito. È proprio questo tipo di mentalità che cerchiamo di sviluppare negli Scouts e nelle Guide, con risultati fino ad oggi estremamente incoraggianti. Noi insegniamo loro, oltre alla salute fisica e un carattere forte, anzitutto il patriottismo per il loro Paese, il sostegno alle autorità costituite e la ricerca dell’unità e della concordia all’interno dei suoi confini; in un secondo luogo, la buona volontà e la cooperazione coi loro fratelli degli altri Paesi. Per promuovere questo secondo punto teniamo ogni quattro anni un raduno internazionale o “jamboree”, in cui i contingenti vengono da tutti gli altri Paesi per accamparsi insieme e imparare a conoscersi e a comprendersi a vicenda e formare amicizie reciproche. La sola base vera e solida per la pace nel mondo è lo sviluppo di un carattere aperto e generoso negli stessi popoli, che renda loro possibile di formare una comunità unita nel loro Paese e allo stesso tempo essere dei vicini amichevoli e pieni di simpatia per gli altri popoli. Il sospetto reciproco e la paura attualmente esistenti tra le nazioni devono essere sostituiti da comprensione e amicizia reciproca. L’esperimento scout ha mostrato che ciò è possibile, se i popoli sono educati a questo spirito in giovane età. (POWELL, Baden, Cittadini del mondo. Roma: Fiordaliso, 2006 (I libri di Baden Powell), 106 p., p.85-87)

Questa lunga citazione è importante perché B.P. parte in un discorso discensionale dalla pace nel mondo, che sembra un utopia fritta e rifritta, sbandierata sempre da tutti, alla sua attuazione pratica, veramente possibile, che cancella dalla sua idea ogni traccia di utopia: l’educazione al rispetto verso l’altro, all’amicizia, alla simpatia, alla conoscenza dell’altro tramite esperienze di amicizia internazionale che impediscano ogni sorta di sospetto tra Paesi, perché superato da una rete di amicizie e di profondo rispetto umano tra i cittadini. Il discorso del 1935 fu profetico: quello che non riuscirono a capire i politici di allora, lo compresero persone di ampie vedute come Baden Powell che, forgiato da giovane attraverso le esperienze della guerra, ne aveva vista l’inutilità. Non si trattò di un pacifista di bassa lega che non sa quel che dice e che urla “pace” senza un programma di fondo e senza contezza di quel che veramente accade nel mondo: non bastano i cortei per far cambiare idea alle persone, ma è l’educazione al rispetto e all’intercultura, attraverso metodi chiari, semplici e diretti, che si ottiene una visuale diversa dell’altro. La “marcia in più” del pensiero di B.P. sta poi nel fatto che i suoi proclami alla pace non sono frutto solamente di una filantropia e di una profonda umanità, ma attingono dai precetti evangelici che si possono cogliere nelle sue parole. Non dimentichiamo che il suo viaggiare per il mondo e il suo parlare di solidarietà, di amore, di fratellanza tra i popoli, di amicizia, di servizio al prossimo, sono chiari richiami agli insegnamenti gesuani, verso cui B.P. ebbe una fede accesa e sentita. La sua fu una “catechesi dal basso”: il fondatore non amava i sermoni che annoiavano i ragazzi, ma attraverso la pratica quotidiana di un amore condiviso e del servizio verso il prossimo, attraverso il gioco, la natura e la strada, portava i ragazzi e le ragazze allo stesso messaggio, impregnandoli in una comune condivisione d’intenti e a un comune sentire Dio, nella comune realizzazione del Regno escatologico. B.P. non si sottrasse quindi nemmeno dai suoi impegni di catechista, riconoscendo poi i suoi limiti teologici quando demandava ai singoli pastori le “cure particolari” delle singole professioni religiose. Il forte messaggio comunque, fu proprio che non c’è novità senza differenza e che senza la differenza da conoscere la vita sarebbe piatta e noiosa: ci s’innamora e ci si affeziona all’altro non tanto perché è uguale a noi, quanto perché amiamo dell’altro le novità che porta e le esperienze che è in grado di trasmetterci. Se non ci fosse differenza e tutti fossimo uguali e non ci sarebbe nemmeno bisogno del dialogo.
Mi preme di sottolineare una piccola nota a margine: B.P. chiamò Jamboree i grandi raduni di scout; si sa bene che l’etimologia della parola richiama alla marmellata. C’è quindi da pensare che il fondatore avesse in mente una “marmellata di ragazzi”, ove tanti sapori si miscelano per dar vita ad una leccornia unica nel suo genere, ove un ingrediente si amalgama totalmente all’altro, legando le sue proprietà a quelle dell’altro, così da dar vita a una buona marmellata da spalmare sul pane del mondo.

CONCLUSIONE.

B.P. non volle assolutamente affermare (e non lo vogliamo fare nemmeno noi) che ogni fede e ogni cultura sono uguali alle altre e che l’una vale l’altra: questo discorso non avrebbe portato a nulla, se non a un banale relativismo, ben lontano dalle intenzioni del fondatore. Baden Powell, anzi, incoraggiò l’educazione alla fede da parte di ogni singola religione, ma il suo punto fermo, poi, stette nel ricordare ai singoli che esistono gli altri e che tutti, questo si, hanno pari dignità perché figli dello stesso Padre. Per quanto riguarda la fede cristiana, poi, Giovanni Paolo II, intuendo la profonda pedagogia del Chief, il 2 agosto del 1997, in occasione della route nazionale delle comunità capi dell’ AGESCI (ma ovviamente il messaggio era rivolto a tutti gli scout cattolici), disse:

Il vostro fondatore, Baden-Powell, amava indicare i due grandi libri che dovete sempre saper leggere: il libro della natura e il libro della Parola di Dio, la Bibbia. Si tratta di un’indicazione sicura e feconda. Amando la natura, vivendo in essa e rispettandola, imparate ad unire la vostra voce alle mille voci del bosco che lodano il Signore; immersi in essa continuate a celebrare i vostri momenti di preghiera e le vostre liturgie, che resteranno nel cuore dei giovani come esperienze indimenticabili. Coltivando la vostra tradizione di amore e di studio della bibbia, troverete sentieri e strade sempre nuove per una catechesi originale ed efficace, inserita nel cammino di catechesi della Chiesa italiana e caratterizzata dalla ricchezza dei simboli e delle occasioni proprie dello scautismo.

Non se ne esce: lo Scoutismo è religioso ed aperto all’intercultura. Non creerebbe scandalo, in un riparto misto dal punto di vista religioso e di culture, dedicare anche uno spazio ad una preghiera comune all’unico Dio, dove si imparerebbe sin da piccoli ad elevare preci universali, in cui tutti gli uomini si ritrovino. Stare in silenzio vicino a un Buddhista, poi, o a un indù, significherebbe unirsi in quel sacro silenzio e meditare i misteri della vita: la meditazione è un punto d’incontro tra cristiani e Buddhisti e il silenzio è un momento rigeneratore per ambedue. Punti d’incontro ce ne sono: il non trovarli significa non cercarli per pigrizia o per paura. Andare incontro all’altro non mina la propria identità, ma la porta verso l’identità dell’altro, in un fecondo e scambievole abbraccio umano e sincero. Si provi a dare una tazza di cioccolata calda ai ragazzi: sicuramente l’accetteranno! Si dica poi loro che se non accettassero l’alterità, non dovrebbero nemmeno bere quel buon nettare scuro, perché ci è stato dato da mani con un colore diverso dal nostro, molto lontane, che non hanno la nostra cultura. Eppure il loro cacao ci piace! Questo significa che lo straniero ha tante cose da donarci, che noi non abbiamo. L’altro, lo straniero, non è quindi per forza il nemico, ma le sue mani sono spesso piene dei doni di un’alterità che altrimenti non conosceremmo mai: se ci pensiamo, furono proprio degli stranieri che, venuti da lontano, portarono a un bambino ebreo tre doni non di poco conto: oro, incenso e mirra; tre sacerdoti zoroastriani viaggiarono per mesi per arrivare in una terra straniera e per adorare l’unico e comune Dio. Solo dopo aver battuto questo sentiero, potremo dire, un giorno, di poter lasciare questo mondo un po’ migliore di come lo si trovò.

UNA SPIGOLATURA A MARGINE: NOTE TECNICHE PER PARLARE DI DIO.

Nel giugno del 1964, due amici, un prete dell’Opus Dei e un monaco benedettino, già da molti anni stabilitisi in India, decisero di partire per un’esperienza che non dimenticarono mai più: un pellegrinaggio alle sorgenti del Gange, presso Gangotri, sull’Himalaya, seguendo la scia dei pellegrini hindu che ogni anno vanno a mondarsi dai propri peccati nelle sacre acque, proprio dove il Gange, il fiume sacro per eccellenza, trae la propria nascita e la propria forza. Il prete dell’Opus Dei era Raimon Panikkar, campione del dialogo interreligioso, mentre il monaco benedettino era Henry Le Saux, che prese il nome indiano di Abhishiktananda (“colui che trova in Cristo la sua beatitudine”). I due amici erano riusciti a compenetrare la mistica cristiana con quella induista, coniugandole in una fede cosmologica di un Cristo onnipresente in tutti i popoli e in tutte le religioni. Non possiamo al momento andare oltre nel pensiero di questi due grandi mistici e teologi (sarebbe bello, ma esula da questo contesto). I due amici si misero sulle tracce delle sorgenti del Gange, tra molti perigli e molte privazioni. Essi erano profondamente colpiti dalla grande fede ed illuminazione dei pellegrini che spendevano quel poco che avevano pur di bagnarsi in quelle sacre acque e vollero provare anche loro il contatto con il Sacro, attraverso quel bagno purificatore in quelle acque gelide e rigeneratrici.
Partirono il primo di giugno da Varanasi, ove si erano già stabiliti da anni, arrivando alle sorgenti del Gange il 7. Scorsero le sorgenti, si spogliarono e si immersero più volte in quelle acque ghiacciate. Abhishiktananda ebbe a raccontare che il contatto con quell’acqua ghiacciò ogni sua fibra, trapassandolo da parte a parte; questo contatto lo fece trasalire, arrivando a pensare che effettivamente, l’uomo, a contatto con Dio, non può che rimanere trafitto da parte a parte in ogni sua fibra, come da una lama ardente. Questo è il sacro, questo è Dio. L’uomo non può resistere davanti a tale incommensurabilità, non può rimanere indenne: la sua carne trema, il suo cuore arde, il suo stesso essere rimane trafitto, impotente. Tali furono Abhishiktananda e Raimon Panikkar a contatto con quell’acqua sacra. Dopo le immersioni, i due amici guadagnarono di nuovo la riva, si asciugarono al sole e si insinuarono all’imbocco di una grotta ove, sedutisi in terra a torso nudo e con la stola al collo, officiarono la Santa Messa, levando l’Eucarestia nel luogo sacro per eccellenza dell’Induismo. Per celebrare, i due sacerdoti dovevano accendere le candele dell’altare improvvisato che avevano preparato, ma il vento le spegneva continuamente. Decisero allora di accendere due incensi indiani. E lo Spirito cominciò a soffiare su di loro. La Messa fu introdotta da alcune litanie Upanishad, poi continuò in latino; le voci dei due officianti erano completamente coperte dal roboante rumore delle acque del Gange nascente che scrosciavano vicino la grotta, testimone silenziosa dell’elevazione di quel pane fatto carne e di quel vino fatto sangue… Con l’aggiunta di un po’ di acqua sacra del Gange….

NOTE TECNICHE PER PARLARE DI DIO.

Da sempre, in tutte le religioni, l’acqua ha costituito la purificazione per eccellenza. Essa sgorga pura e lava da ogni colpa, da ogni peccato, da ogni impudicizia. Lava lo sporco fisicamente e lava l’anima dalle macchie della sua veste. Per battesimi o per riti purificatori, l’acqua è sempre stata presente, elemento costante e prezioso. Non c’è religione che non utilizzi questo elemento base della natura, in nessun tempo.
Mettiamo che ci sia un riparto o un clan (o fuoco) ove ci siano ragazzi e ragazze di più appartenenze religiose e mettiamo che il Capo, in qualità di loro catechista (o il Baloo) voglia intraprendere una chiacchierata spirituale, così come la concepiva Baden Powell. Come fare, visto che ci sono cristiani, ebrei, indù, buddisti o qualche islamico?
Lo Scoutismo parte dal grande giuoco e dall’avventura. Se vi fosse la possibilità, magari d’estate, quale migliore modo di un’uscita al fiume (nelle sue molteplici varietà di attività acquatiche), quali escursioni a piedi o uscite con le canoe su un lago? Si inizierebbe subito bene, facendo “giocare il gioco” ai ragazzi, facendo vivere loro l’avventura e attuando un’attività dove “tutto viene fatto col gioco, ma niente viene fatto per gioco”. Dopo l’attività, quando i ragazzi sono finalmente stanchi e paghi dell’avventura affrontata, ecco che, con i loro corpi bisognevoli di riposo, presentano l’anima predisposta all’ascolto.
A questo punto non ci sarebbe bisogno di tante prediche, perché con poche parole i ragazzi e le ragazze riuscirebbero a comprendere di essere immersi nell’elemento acqua. Il Capo sarà lì, con loro, in cerchio, dove tutti sono immersi nell’acqua fino alla vita. Ecco allora il Capo che dice: “Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta”. Da qui parte una breve chiacchierata, dove lo sciabordare dell’acqua parla essa stessa. Ogni astante sarà poi invitato a “lavare” il suo vicino, versandogli copiosamente l’acqua sul capo. Se ci sarà un sacerdote, rinnoverà le promesse battesimali ai battezzati, mentre gli altri, nel nome di quel Dio e di quella fede in cui credono, utilizzeranno l’elemento acqua come lavacro, come benedizione, come aspersione nel nome di quel Sacro presso cui tutti sono figli. Gli ebrei monderanno i musulmani, che laveranno gli indi, che benediranno i buddisti. Si scoprirà quindi che c’è acqua per tutti e quindi per tutti benedizione e salvezza. Si scoprirà che non è importante il fatto che apparteniamo a tradizioni religiose diverse, ma è importante che siamo fratelli, figli di quell’unico Dio della cui unicità noi uomini, ciechi perché decaduti, noi vediamo la molteplicità del suo esplicarsi. L’acqua sarà il comune denominatore, per noi che abbiamo dentro l’elemento del fuoco della vita, per noi che siamo fatti di quel medesimo elemento che è la terra, per noi la cui anima è volatile come l’elemento aria. Non ci sarà nessun sincretismo e nessuno rinuncerà alla propria religione. Tutti, però, si comprenderanno meglio, specie se ognuno, lì in acqua, farà volare in cielo una sua preghiera appartenente al suo credo.
Questo è solo un esempio sulla scia dell’esperienza dei due amici Abhishiktananda e Raimon Panikkar e sull’onda del pensiero di B.P.
Manca però un elemento, affinché attività del genere possano funzionare pienamente: non possiamo dirci figli di un unico Dio, se prima non impareremo a smetterla di operare distinzioni in base al colore della camicia e alle appartenenze associative. È infatti assurdo non fare caso al colore della pelle e al credo religioso, quando poi si addita alla diversità dell’uniforme scout. Di fronte a quest’ossimoro, nessun dialogo potrà avere mai inizio e nessuna associazione scoutistica, sia mondiale, sia nazionale, sia locale, potrà dire di attendere pienamente alla volontà di fratellanza universale perorata dal nostro unico amico e maestro Baden Powell. Tutto il resto è vanità.

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Il presente elaborato, in tutte le sue quattro parti, è a libera fruizione. Se ne concede l’uso per studi sociologici, pedagogici, didattici e, ovviamente, metodologici. L’unico vincolo è quello di dover citare la fonte qualora questo elaborato, sia in toto, sia in parte, sia utilizzato per qualsiasi scopo. L’autore del presente studio si identifica in Leonardo Castellani, capo del clan di Giunglasilente, Clan Francescout, Nuove Aquile Randagie.

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