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Intercultura e religioni nel Metodo Scout

da | Mag 23, 2014

coccinella

 

Senza nascondersi dietro a un dito, siamo ormai di fronte a una sfida multi culturale e multi religiosa e la domanda va posta, perché prima o poi accadrà (ed è già accaduto): se in un gruppo che si richiama allo Scoutismo Cattolico si dovesse presentare un bambino ebreo, musulmano, protestante, induista… Dove andremmo a parare? Sicuramente il non parlarne e il non affrontare la problematica non aiuta, perché prima o poi l’educatore si troverebbe di fronte a un gruppo che deve rinnovare le promesse durante la celebrazione di una Santa Messa o magari ci si trova intorno al fuoco con un Baloo che deve fare una “chiacchierata spirituale”. Nemmeno appartandosi e lasciando il ragazzo (a) a fare nel mentre qualcos’altro aiuterebbe, perché anche quel ragazzo (a) ha diritto ad una crescita spirituale. Cosa fare allora? Se da una parte è nato anche da pochi anni un contesto di Scoutismo Musulmano Italiano, potrebbe però accadere che un ragazzo (a) chieda ai genitori di iscriversi a un gruppo scout cattolico perché è l’unico nella zona, dove tra l’altro vanno tutti i suoi amici. Un “no” da parte di quei genitori solo per una “chiusura” mentale o religiosa sarebbe già un limitare il diritto alla “libera espressione” del ragazzo. Parimenti, senza una dovuta preparazione da parte dei Capi ci si troverebbe di fronte a più di qualche imbarazzo. Non dobbiamo far finta che il problema non ci tocchi, perché prima o poi (più prima che poi) potrebbe capitare. La prima generazione della prima ondata di “stranieri” in Italia sta ormai invecchiando e sta lasciando il passo alla seconda generazione, ormai in larga parte italianizzata, che a sua volta sta dando alla luce la terza generazione. Si sentono ormai ragazzi e ragazze di altre razze parlare con i nostri dialetti regionali e sentirsi pienamente italiani.  Asserire che il problema non ci riguarda sarebbe un grave errore, perché lo Scoutismo Cattolico Italiano, se in parte si è già attrezzato, in parte deve ancora fare i conti con il giusto approccio con quello Scoutismo multiculturale, così come concepito da Baden Powell, ma a casa nostra ancora non intrapreso. Questa è la riflessione che il clan di Giunglasilente vuol donare agli internauti, magari come premessa per una discussione all’interno dei vari Consigli di Gruppo e Comunità Capi. Buona lettura….

  1. UNA NECESSARIA PREMESSA

Parlando di Scoutismo, non possiamo che definirlo che un movimento educativo religioso. Non è possibile infatti parlare di esso precludendone la sfera della religiosità che non è un elemento in più, quasi di cornice, che si possa togliere o far rimanere a seconda della sensibilità dell’educatore, ma ne è un elemento intrinseco e imprescindibile, senza di cui addirittura non si potrebbe parlare di Scoutismo in modo proprio. Quest’affermazione potrebbe far storcere la bocca a chi afferma e sostiene uno “Scoutismo laico” inteso come “aconfessionale”, ma aldilà della sua digeribilità, non si tratta di una questione di punti di vista, ma dell’oggettività dell’idea che ebbe in mente il fondatore del Movimento, Lord Robert Baden Powell.

A supporto di quanto sopra esposto abbiamo una molteplicità di fonti[1], che non possiamo citare completamente per mancanza di spazio, sia la Promessa e la Legge, quelle originali, dettate da B.P. Per fare un esempio, la promessa dello scout è la medesima per tutti e inizia, non a caso, con le parole: “con l’aiuto di Dio”, proseguendo con: “prometto sul mio onore di fare del mio meglio per compiere il mio dovere verso Dio e la patria, per aiutare gli altri in ogni circostanza e per osservare la Legge Scout”[2]. Da subito, la figura di Dio appare già due volte. Lo Scout che promette secondo la Promessa dettata da B.P., aderisce alla fede in Dio, in qualsiasi modo lo si concepisca. B.P., da protestante figlio di un pastore protestante, pur credendo al Dio Cristiano e a Gesù Cristo, a cui si richiamò spesso, non pensò però al Dio che lui conosceva, per il suo Movimento: infatti lo Scoutismo fu concepito come un qualcosa che doveva travalicare anche le frontiere della religione, dove ad unire le molteplici sensibilità e i molti modi di concepire la divinità, era la comune idea di Dio. La formula funzionò anche per le forme di politeismo come quello indù, perché comunque anche queste elevavano il proprio spirito verso il trascendente.

A titolo di completo scanso di equivoci, poi, urge citare il seguente pensiero dello Chief:

Mi è stato chiesto di descrivere più approfonditamente ciò che avevo in mente per quanto concerne la religione quando fondai lo Scautismo ed il Guidismo. Mi è stato chiesto: «Come c’entra la religione?». La mia risposta è stata che la religione non ha da «entrarci», perché è già dentro. Essa è il fattore fondamentale che pervade lo Scautismo ed il Guidismo.[3]

Qualora quest’affermazione possa risultare frutto di un caso, elenchiamo qui sotto un altro scritto:

Non c’è un lato religioso del Movimento. L’insieme di esso è basato sulla religione, cioè sulla presa di coscienza di Dio e sul suo Servizio.[4]

Parlando poi del servizio alla Patria, sostantivo altisonante che oggi in certe promesse è stato “levigato” fino a trasformarlo in “proprio Paese”, bisogna sottolineare che detta parola non fu intesa in senso militaristico[5] e che spesso al posto di Patria, facendolo apposta, egli utilizzò la parola “regno”, sia per indicare il regno d’Inghilterra, che all’epoca era una grande potenza coloniale, sia per giocare con le figure del “regno dell’uomo” e del “Regno di Dio”:

Lo scopo del movimento degli Scouts e delle Guide è oggi generalmente inteso come quello di formare cittadini felici, sani e disponibili ad aiutare il prossimo. In questa epoca materialistica, con piaceri e distrazioni sempre più alla portata di tutti, la formazione dello spirito sta diventando sempre più difficile ed è troppo spesso trascurata. Il nostro obiettivo nel movimento scout è di contribuire come possiamo a realizzare il regno di Dio sulla terra dando ai giovani lo spirito e la pratica giornaliera, nelle loro vite, di una buona volontà e spirito di cooperazione altruistici.[6]

Il Regno di Dio, negli scritti di B.P., ovviamente suscitato dai precetti evangelici, travalica quello degli uomini e servire onestamente il proprio paese, nella dimensione dell’altro e del servizio (“servire” è il motto dei rover e delle scolte) significa dare il proprio piccolo apporto per la realizzazione di un Regno ben più grande di qualsiasi regno umano. Nel suo “taccuino”, B.P. annota un detto di un tale reverendo Alfred Wishart:

«L’uomo è in gran parte responsabile della vita della società, e se quella vita produce guerre, povertà, criminalità e malattie è dovere dell’uomo rimediare a questi mali che generano l’umana miseria. Ma è rarissimo che i diversi agenti del male umano ammettano la loro responsabilità, giacché il mondo è stato indotto a pensare che Dio deve salvare e Dio deve soccorrere. L’abitudine a dare la responsabilità a Dio per condizioni di vita per le quali in realtà sono responsabili gli uomini inganna l’umanità e rinvia l’adozione di rimedi adatti»[7].

Questo testo inquadra il pensiero di B.P. nell’alveo dei precetti evangelici, dove la giustizia sociale è il primo mattone per costruire il Regno di Dio: un regno dell’uomo giusto può e deve rispecchiare quello del sempiterno. L’invito del generale inglese a “lasciare il mondo un po’ migliore di come lo si trovò” si incrocia con il bisogno di una giustizia sociale che però non è fine a sé stessa nel senso marxistico: in B.P. l’uomo non rimanda solo all’uomo, ma trascende le azioni che fa per la realizzazione del Regno di Dio, tanto proclamato da Gesù di Nazareth. Un altro bellissimo passo di un altro appassionato libro del Capo Scout del mondo fa sorridere per la sua semplicità, mista a una profondità di pensiero unica nel suo genere e condita da un sano humor prettamente inglese:

Un ragazzo giudicato incorreggibile fu portato un giorno davanti ad un tribunale; per giustificarsi disse che la colpa era di Dio: «Se Dio non avesse voluto che io fossi cattivo, mi avrebbe salvato e reso buono». Questo fatto mi ricorda uno dei capi Boeri, che quando fu catturato dalle nostre truppe, inveì contro il presidente Kruger, perché non gli aveva fornito sufficienti artiglierie. Disse che quando le aveva chieste il Presidente gli aveva dato questa caratteristica risposta: “Se Dio vuole che noi vinciamo la guerra, vinceremo, sia con l’artiglieria che senza”. A questo egli aveva replicato: “è vero. Però Dio vi ha dato uno stomaco con il quale potete gustarvi un’oca arrostita; ma suppone che l’oca la spenniate e cuciniate voi”. Niente di più vero: Dio ci ha dato in questo mondo tutto ciò che serve per poter godere la vita, ma sta a noi lo sfruttare queste possibilità oppure compromettere tutto. Dato che abbiamo poco tempo per vivere, è essenziale compiere azioni che abbiano valore, e compierle ora. Un primo passo è quello di non accontentarci di avere una vita e delle idee interamente limitate alla calce e ai mattoni, al commercio e alla politica, all’accumulare denari e altre cose effimere create dall’uomo e senza alcuna importanza. Ma dobbiamo guardarci attorno e cercare di scoprirle nel modo più completo possibile le meraviglie della natura, conoscere quanto più possiamo del mondo e delle sue varie bellezze, delle cose interessanti che Dio ci offre; facilmente capiremo quali cose siano utili e quali no per una vita felice. Nel mio caso, da anni mi vado dicendo: “fra tre anni sarò morto; quindi devo fare questo e portare a termine quello, altrimenti sarà troppo tardi!”. Questa abitudine mi ha scosso e mi ha spinto a fare subito delle cose che il giorno dopo forse non avrei fatto. Tra l’altro – e me ne trovo contento – mi ha condotto a visitare varie parti del mondo senza il fatale attendere un’occasione migliore. In una specie di sogno ad occhi aperti una volta mi è sembrato di essere morto e di arrivare alla porta di S. Pietro, il quale mi domandò gentilmente: “Ti è piaciuto il Giappone?”-“Il Giappone? Ma io vivevo in Inghilterra”. “Ma cosa facevi durante la vita, in quel magnifico mondo, con tanti luoghi meravigliosi, posti laggiù per renderti migliore? Hai sciupato il tempo che Dio ti ha dato per impiegarlo?”. Così andai subito in Giappone[8].

Baden Powell ebbe una vita avventurosa e la sua energia, la vitalità e la voglia di vivere e di farcela, gli fece guadagnare un soprannome da parte delle tribù Zulù che egli combatté, ma che rispettò sempre per il loro modo di essere: Impeesa, il “lupo che non dorme mai”. Avventuriero, pedagogo, filantropo, artista, fondatore di un metodo educativo che meritò gli elogi di scienziati della risma di Pierre Bovet e di Maria Montessori; tutto quello che fece e che disse, però, fu improntato ad un unico scopo: Dio. Tutto questo florilegio di citazioni, quindi, per quanto abbastanza lungo (ma assolutamente incompleto) serve per porre un importante fondamento, purtroppo non sempre scontato, visto il fiorire di realtà scout che non si pongono il problema di Dio o che per paura di porselo, vivono uno Scoutismo, per quanto bello, sano e stimabile, etsi Deus non daretur. Lo Scout è religioso e ascolta la voce di Dio e per fare questo passa attraverso la bellezza del creato che già da solo pone un profondo interrogativo su “ciò che è”. Lo Scout richiama l’immagine del cavaliere medievale[9], dell’eroe senza tempo che sta nel tempo, dei guerrieri zulù, ashanti o matabele che nelle loro concezioni religiose tribali, avevano comunque un rapporto profondo con Dio, rispettando profondamente l’ambiente in cui vivevano in perfetta simbiosi, perché la natura richiamava all’idea del sacro e del trascendente. Nell’esperimento del 1907 presso l’Isola di Brownsea, i venti ragazzi che erano stati trascinati nel primo campo scout, di tutte le estrazioni sociali e comunque abituati al frastuono delle città, oltre al gusto dell’avventura sentirono acceso in loro il bisogno di allacciare un rapporto particolare con qualcosa o qualcuno che fino a quel momento non avevano sperimentato nella loro vita, ma che ora sussurrava loro tramite la bellezza del creato. Lo Scoutismo religioso e la sua ombra, quella dello Scoutismo “laico”, ateo o agnostico, in forza di questo devono saper dialogare, nella certezza che prima o poi il sole della vita, raggiunto lo zenith, saprà ricongiungere le parti di una medesima realtà.

  1. L’IDEA UNIVERSALE DI DIO E LA CATECHESI DELLA NATURA

Seconda premessa fondamentale, specie per i non addetti ai lavori sulla pedagogia dello Scoutismo, è il modo in cui l’idea di Dio viene trattata con i propri discenti. Stiamo ponendo qui le basi per un dialogo interculturale e interreligioso, problema tra l’altro, come vedremo, affrontato dal fondatore del movimento gigliato. B.P., da buono psicologo, insisteva nel dire che il ragazzo (questo è il “materiale umano” di cui si occupava) non è un “animale da banco”, ma un “animale” che vuole stare all’aria aperta: mentre segue le lezioni a scuola, spesso scalcia, perché la vita in lui è effervescente ed esplosiva. Tutte queste energie vanno convogliate e tenute saldamente alla briglia di un metodo educativo che sappia dosare il gioco con momenti di insegnamento anche alti, proposti però in un modo che non annoino il giovane: da questa convinzione, venne fuori uno dei moniti più belli e caratteristici del metodo scout: “tutto si fa col gioco, ma niente si fa per gioco”. Se la scuola, elemento fondamentale, segue l’istruzione del ragazzo (e della ragazza, ovviamente), lo Scoutismo cerca di dare ausilio alle famiglie, forgiando il carattere del ragazzo non solo verso principi sani, ma verso l’idea di verità e l’idea di Dio. Un conto però è tenere loro una lezione di alta teologia e un conto sarà invece proporre gli stessi concetti attraverso una favola, un racconto, un’attività avvincente. E la chiave della piena catalizzazione dell’attenzione sta proprio in questo[10]. Fatta questa premessa, possiamo arrivare al punto: l’idea di Dio.

Lo Scoutismo, questo lo avremo capito, nacque per valicare ogni genere di confine: di nazionalità, di razza, di religione, ecc… Esso quindi fu concepito come metodo pedagogico che cercasse i punti che tutti i ragazzi del mondo possono avere in comune. La riuscita fu incredibile e tra questi punti in comune, vista la finalità finale del Movimento, vi è l’idea di Dio. Non Jawhè, non Allah, non il Dio di Gesù, non specificatamente un dio di una religione, ma Dio in generale. B.P. scavò nella comune voglia di risposte dell’umanità. Il fine escatologico dell’uomo è uno di questi punti in comune e la domanda su Dio accomuna tutte le culture. Il primo punto da affrontare sta nel modo in cui cimentarsi in un problema così dibattuto e così importante, specialmente verso bambini, ragazzi e ragazze che non hanno ben sviluppato questo tipo di sensibilità e di ricerca, perché ancora troppo occupati alla scoperta del mondo: la prima scoperta del mondo da parte dei bimbi e la seconda scoperta da parte degli adolescenti, quando la percezione dell’ambiente, dell’altro e del proprio corpo che sta mutando, cambiano radicalmente. Tutto è incentrato sulla percezione immediata di quanto ha la ventura (o a volte la sventura) di imbattersi nella voglia di scoprire di questi “piccoli uomini” e “piccole donne”, la cui voglia di fare esperienza è ancora troppo legata alle percezioni della corporeità, specialmente sotto l’influsso ormonale dell’adolescenza, quando il “gusto per la bellezza” elabora suoni, momenti ed emozioni legati a un “io” fortemente in progress. L’interrogativo sul perché della propria esistenza è già insito nel ragazzo e non va quindi inculcato, ma tirato fuori attraverso sollecitazioni esterne che suscitino il giovane individuo ad elevare i suoi sensi immediati. Baden Powell utilizza l’ambiente naturale non solo come scuola di vita, ma anche come catechesi che faccia risalire il ragionamento da quanto è creato a chi creò. B.P. è contrario ad un tipo d’insegnamento che leghi il ragazzo ad un banco extrascolastico: l’insegnamento deve entrare attraverso l’emozione, in cui il protagonista sia il discente stesso che possa interagire continuamente per convogliare le proprie energie e le proprie pulsioni. È impressionante quanto a volte il metodo scout si avvicini a quello montessoriano. Eppure B.P. non se ne ispirò. Il ragionamento verso cui stiamo andando non è a caso, ma è frutto di un genio educativo che trovò anche la strada per gettare le comuni basi di un pluralismo religioso. I tre passaggi seguenti sono una vera e propria pedagogia per comprendere le intenzioni di un uomo che non fu un teologo, che non si occupò di ecumenismo religioso, ma che ebbe delle intuizioni strabilianti per gli addetti ai lavori:

La religione vera non può essere insegnata come una lezione a una classe scolastica. È spaventoso pensare al numero enorme dei nostri ragazzi divenuti bigotti o miscredenti per l’incomprensione di questi concetti da parte dei loro insegnanti.[11]

Per me la meraviglia delle meraviglie è che alcuni insegnanti abbiano trascurato [lo studio della natura], mezzo di educazione facile ed infallibile, ed abbiano lottato per imporre un’istruzione biblica come primo passo per condurre un ragazzo irrequieto e pieno di vita a pensare a cose più elevate.[12]

Il terzo passo, comincia a rispondere alla domanda che ci poniamo in questo elaborato: è possibile un’intercultura nel metodo scout, specialmente per quanto riguarda l’aspetto religioso? L’intercultura è già intrinseca nel metodo, che nacque per questo. Il problema (che si pose anche il fondatore) è se sia possibile accostare persone di diverse fedi religiose in un unico consesso giovanile, in questo caso, ad esempio, un riparto o un clan (o un fuoco)[13]. Se lo Scoutismo è religioso per nascita, come accostare le religioni? B.P. torna alle fonti della religiosità umana, in una pedagogia in crescita che parte dal comune sentire Dio:

Alcuni obietteranno che la religione dei boschi è anche la religione dei primitivi; ed in qualche misura ciò è vero. Essa rimonta al primitivo, all’elementare, ma al tempo stesso costituisce il terreno comune su cui si basano la maggior parte delle forme di religione: cioè l’apprezzamento di Dio e il servizio del prossimo. Ma in molti casi la forma ha talmente ricoperto la fede semplice originaria della natura da renderla quasi irriconoscibile. Abbiamo preso a giudicare una religione più o meno come, se siamo un po’ “snob”, giudichiamo una persona dal suo vestito. […] Eppure la forma originaria della religione è così semplice che un bambino può capirla; un ragazzo può capirla; uno scout può capirla. Viene dall’interno, dalla coscienza, dall’osservazione, dall’amore e pervade tutte le azioni del ragazzo. Non è una formalità o un ambito dogmatico indossato all’esterno e portato la domenica […]. Non voglio dire con questo che dobbiamo distogliere un ragazzo dalla religione dei suoi padri: lungi da ciò. Lo scopo è dargli un fondamento migliore per quella fede incoraggiando in lui percezioni che egli possa comprendere. [14]

B.P. ha da dire anche verso la possibilità dell’irreligiosità:

Irreligiosità: avere una tendenza a trascurare la parte religiosa? Usando le meraviglie della natura come tramite, portate i ragazzi a rendersi conto di Dio creatore, e con le Buone Azioni e il Servizio ad esprimere amore per il loro prossimo.[15]

Con un guizzo di poesia, infine, il Chief scrive:

Qui, tra le nevi eterne, faccia a faccia con la natura nella sua forma più grande e più sublime, [i rover] devono essersi sentiti in contatto più stretto col Creatore Onnipotente e come in una nuova atmosfera, molto al di sopra del frastuono provocato dall’uomo dal volgare squallore della città.[16]

Giunti a questo punto, anche solo attingendo a poche fonti del fondatore, risaltano gli elementi centrali dell’idea di Dio e di come arrivarci: un’idea semplice, una catechesi presa dagli elementi del tribalismo che egli conobbe così a fondo[17], rimanendo sorpreso dalla religiosità, dal rispetto per l’ambiente e verso il prossimo di tribù forse non così primitive come sono raffigurate dall’immaginario collettivo. È ovvio che la base comune di quest’idea di Dio dovrà poi svilupparsi in concetti sempre più complessi e profondi, seguendo la maturazione personale, culturale e la sensibilità dei ragazzi che, mano a mano che cresceranno, si porranno interrogativi sempre più stringenti su Dio. In un’epoca dove la multimedialità ha preso il sopravvento e in cui il frastuono delle città impediscono la comunicazione vera ed efficace, non meramente funzionale, ma intima, un cerchio di persone in mezzo alla natura, un buon fuoco scoppiettante e una favola ad effetto impreziosiranno la catechesi su Dio. Le favole hanno fatto presa da sempre nell’animo dell’uomo e forse anche per questo le nuove favole, quelle moderne, quelle dei cinema e dei film, hanno così successo: sono storie la cui narrazione è consegnata alle immagini. Si faccia caso al momento in cui, in un film di forte impatto emotivo e di fantasia (ad esempio il “Signore degli anelli” o “Harry Potter”) certi personaggi, con tonalità grave, cominciano a raccontare una storia: la sala si quieta all’improvviso, dando luogo ad uno dei momenti di concentrazione più alti. Da sempre la narrazione di una favola colpisce l’immaginario sia dei bambini, sia degli adulti. L’esperimento di Don Annunzio Gandolfi, sacerdote scout recentemente scomparso, è sintomatico e il suo libro sulle leggende scout[18] è rimasto nel cuore di educatori ed educandi, appunto perché dette un enorme valore aggiunto ai fuochi di bivacco scout. Parlare di morale, di valori e infine di religione e di Dio in maniera accademica senza l’ambiente favolistico, così importante anche per i rover e le scolte che ormai lasciano l’adolescenza per affacciarsi verso la loro giovane età adulta, è un togliere il filtro dell’intesa nella comunicazione tra Capo e ragazzo. Non dimentichiamo che in questa pedagogia non vigono il banco da scuola, le lezioni e gli esami con il voto, curando quindi la mera istruzione, ma si guarda la persona nella sua integralità: s’insegna con il contatto umano, con l’incontro, con lo stare insieme e con un “trapasso delle nozioni” efficace, dove le nozioni in questione sono ricordate perché permeano completamente la persona, chiamandola a una profonda riflessione interiore che muove a un nuovo ascolto e a un donarsi a sua volta nel restituire quello che ha ricevuto, attraverso l’ elaborazione personale. Dio non è più visto in maniera fumosa come in una (purtroppo e spesso) sciatta ora di religione fatta a scuola nell’ora del catechismo che è visto come una sorta di “dopo scuola” dell’obbligo, dove bambini e ragazzi sono chiamati dopo ore e ore di banchi di scuola. Qui non esistono più lo “stai seduto, zitto e ascolta”, ma la partecipazione è viva e il contatto con il coetaneo viene percepito come libero e sincero, in un’espressione di sé che non è più condizionata da “mura istituzionalizzate” e dove il “precettore” ride, gioca e scherza con loro[19]. Sentendo il prossimo così vicino, sentendo che gli insegnamenti sono “emozioni a pelle”, Dio non sarà più lontano, ma vicino e personale: nell’ambiente naturale, dove le sovrastrutture umane sono ormai lontane, finalmente si potrà dare spazio alla vera comunicazione, dove anche la preghiera, che sgorgherà spontanea, sarà sotto il tetto della più bella cattedrale mai costruita: la creazione.

  1. UN DIO SOLO, MA TANTI MODI DI CONCEPIRLO: PROBLEMATICHE DI PLURALISMO RELIGIOSO E DI INTERCULTURA

Quando si parla di storia dello Scoutismo, riferendoci specialmente a quello cattolico italiano, la memoria richiama le gesta di uomini e donne della storica A.S.C.I. (Associazione Scoutistica Cattolici Italiani) e dell’A.G.I. (Associazione Guide Italiane): intendiamo quindi sempre e comunque lo Scoutismo Cattolico, dove non c’erano problemi d’identità religiosa, anche perché nella piccola Italia non c’era una presenza così importante di “stranieri” con il loro Dio, la loro religioni, i loro usi e i loro costumi. Poteva accadere che chi a qualsiasi titolo non si sentiva né cristiano, né cattolico, ma volesse comunque provare l’avventura dello Scoutismo, s’iscrivesse presso il C.N.G.E.I. (Corpo Nazionale Giovani Esploratori Italiani), dove tra l’altro militò anche il giovanissimo Umberto II di Savoia. Ogni realtà religiosa deve dunque fondare un’Associazione a sé? E se un ragazzo di un’altra religione volesse vivere lo Scoutismo non avendo vicino un gruppo scout che confessi la sua religione, cosa dovrebbe fare? Rinunciare a questo suo desiderio? Del resto chi è questo ragazzo? Chi è questo “altro da noi”?

3.1. L’altro da noi

Oggi viviamo gomito a gomito con una presenza “altra da noi”, spesso con una cultura (anche religiosa) molto diversa dalla nostra e che spesso riesce ad integrarsi a stento; spesso la convivenza, come da continui fatti di cronaca, sfocia in momenti di conflittualità, perché ancora la tolleranza non è sfociata in vera e propria integrazione culturale. Anche nello Scoutismo, specialmente in quello Cattolico, inizia a iscriversi l’ “altro da noi”. La prima domanda che dobbiamo porci è: chi è questo “altro da noi”? Chi è questo “straniero” che si affaccia nella nostra realtà? La figura dello straniero non è sempre accettata, perché portatrice di una profonda novità che potenzialmente può interpellare al cambiamento alcune certezze su cui fondiamo la nostra identità societaria, culturale, familiare e individuale. Far spazio a una persona significa cambiare gli assetti spaziali stessi, spostarsi per far posto, interagire diversamente, tenendo conto di una nuova presenza che ha da dire qualcosa. Nella “canzone del Piave” “non passa lo straniero”, perché esso è visto come invasore, come occupatore di un suolo non suo, come usurpatore e pericolo per l’esistenza di chi “sta già”. Oggi gli austriaci non sono più così stranieri, perché concorrono con noi italiani verso uno stesso bene comune, anche se solo economico o di una realtà più grande come l’Europa unita. Fino a trent’anni fa lo straniero era considerato anche il napoletano[20] al centro-nord; ora invece come stranieri consideriamo i rumeni e gli albanesi. Sembra che ci sia un confine che ci dica di volta in volta chi è lo straniero e chi invece è considerato l’autoctono, o quantomeno l’amico, quello “di casa”. Questa estraneità, questo essere “allogeni”, è quindi molto relativa e soggetta alle mutevolezze del tempo e delle situazioni. Del resto nessun popolo può dirsi “razzialmente e culturalmente puro”, ma tutti siamo figli di mescolanze che nei secoli furono causate da migrazioni, guerre, e contingenze, le più disparate. È ovvio che sia più comodo e che si fa prima a rifiutare il rapporto con questo tipo di alterità, piuttosto che interpellarla, farsi interpellare e “perder tempo” a cercar di comprenderne le ragioni. Vediamo allora come la figura dello straniero, alla fine, sia in realtà così fumosa da dover cercare di definirla, anche se vedremo che non è così facile.

L’Antica Grecia viveva in un alveo culturale di spiccata philoxenia (l’amore per lo straniero), dovuta ad un’accesa philantropia: esse erano virtù imprescindibili dell’uomo onesto e del buon politico, esaltate nella letteratura e nella filosofia da Esiodo, Escilo, Platone e Aristotele. Lo straniero era assimilato al parente ed era un delitto assalirlo; esisteva addirittura un altare a Zeus Xenios, di fronte a cui gli stranieri potevano pregare per chiedere protezione: qui lo straniero era intoccabile, perché avvolto da un alone di sacralità. Lo straniero era accolto anche perché era portatore di novità: erano gli stranieri che portavano nelle città le voci dal mondo, narrando tutto quello che avevano visto e incontrato durante il loro cammino. Quella bocca che mangiava il cibo dell’ospitalità, restituiva la voce della novità. Era chiaro che lo straniero era consigliato a tenere delle regole di condotta minime, non obbligatorie ma comunque da tenere in considerazione come forma di rispetto per il tipo di realtà che aveva aperto le sue porte all’ospitalità. L’Iliade e l’Odissea sono piene di viaggi e di momenti di ospitalità, cosa che cambierà con l’Eneide, perché Enea è lo straniero che, venuto da una terra molto lontana dove non poteva più stare, ruppe gli equilibri degli autoctoni, non senza sofferenza, per formare una nuova civiltà la quale, figlia esule di una Ilio sopraffatta, per la “legge del contrappasso” espugnerà e conquisterà il mondo allora conosciuto presentandosi come potente straniero che sottometterà gli altri al proprio diritto giuridico. Per gli Ebrei lo straniero non poteva passare inosservato, ma essendo essi stessi stati esuli per lungo tempo, compresero che esso doveva essere rispettato, perché sacro come quei tre stranieri che si presentarono alle querce di Mamre di fronte ad Abramo, che comprese subito l’importanza di quella visita. La non ospitalità era vista male presso gli Ebrei: Sodoma e Gomorra pagarono a caro prezzo il loro rifiuto verso la visita degli angeli, volendo addirittura abusare di loro. Gesù stesso, nascendo in terra d’Israele, fu lo straniero per eccellenza e la sua morte per crocifissione sarà la morte riservata allo straniero, al non romano, all’inferiore, all’esule; la Chiesa di Cristo, a sua volta, sarà la Chiesa degli stranieri, dove essendo tutti tali, nessuno più sarà chiamato straniero (cf. Col 3,11). L’Islam, a sua volta, suddivide il genere umano in tre grandi gruppi, ponendo una diversa accettazione del diverso e dello straniero: ci sono i dhimmi, che è la “gente del libro”: gli ebrei e i cristiani. Per essi valgono tutti i diritti dell’ospite e così fu, ad esempio, nella “Spagna multiculturale” prima del 1492. Prima dei dhimmi ci sono i fedeli dell’Islam e infine vi sono gli infedeli, gli stranieri per eccellenza, che non godono del diritto dell’ospitalità. Ovunque però l’ospite, pur essendo accettato e rispettato, era interrogato circa i motivi che lo avevano condotto e su quale fossero i motivi del suo viaggio. Anticamente, chi intraprendeva un viaggio o era un commerciante o comunque qualcuno che perseguiva un interesse, oppure un esule, un errabondo o magari un nemico mascherato da amico, da cui ci si poteva aspettare qualcosa di male. Superata la prova, l’ospite perdeva il suo carattere di sacralità ed era integrato più profondamente nella società costituita, perché ritenuto elemento di ulteriore arricchimento della civiltà locale. Quando però la legge dell’ospitalità veniva violata, lo straniero, da ospite, diventava hostis e cioè il nemico. Ecco perché in latino il termine hostis definiva sia lo straniero sia il nemico e l’ospite. Quest’ambivalenza generò anche un conflitto di senso, quando si parlava di ospite e straniero: quel conflitto di senso che fa confondere anche noi stessi. È comunque vero che l’altro, in qualità di estraneo, affascina, ma allo stesso modo fa paura ed è insieme ospite e nemico: non l’uno o l’altro. Lo xenos è diverso dal barbaros, figura che rappresenta il rovesciamento completo, il disvalore, verso cui sono autorizzati rifiuto e violenza. Se ancora oggi non sappiamo se accogliere lo straniero o rifiutarlo e se, avendolo accolto, comunque lo osserviamo per vedere se si meriti l’accoglienza, è causato anche e proprio da questo conflitto di senso, che ci anticipa di qualche buon secolo. Si dice che “l’ospite è sacro, ma se ne deve andare”, altrimenti diventa qualcos’altro: il nostro mondo occidentale, che per secoli si è espanso per conquiste, scoperte geografiche, rotte commerciali e colonialismo, ora subisce il riflusso di popoli che anch’essi vogliono star meglio e che, come noi duecento anni fa, vanno alla ricerca dell’Eldorado. Alcuni di costoro riuscirono ad approdare presso le coste del Vecchio Continente e hanno fatto comprendere subito di non essere normali ospiti, ma persone che hanno deciso di piantare le loro radici su un suolo non loro, portando l’altrove dei loro usi e costumi. Il fascino dell’esotico di cui gode il turista occidentale per brevi momenti e in altri continenti lontanissimi, approda ora nelle terre dei nostri padri: per questo perde il suo fascino e diventa spesso una presenza ingombrante. Al momento anche in Italia abbiamo più presenze minoritarie che sono immerse nella maggioranza autoctona: una realtà di fronte all’altra che spesso non comunicano e che non s’ interculturano, non si integrano, non parlano. L’ospite, lo straniero, piano piano, si affaccia anche presso il panorama scout e l’educatore deve adesso “giocare il suo gioco”.

3.2. La “sedia un passo indietro”

 

Le sigle di alcune associazioni scout presentano una “C”: quella di “Cattolica”. Essa definisce un’appartenenza strettissima al Credo della Chiesa Cattolico Romana. Ci domandiamo se questa “C” possa essere precludente nei confronti di chi non sia cattolico. Molto rappresentativo è l’esempio di quel ragazzo che aveva camminato e gioito tutto il giorno della bellezza della Natura e del gusto dell’amicizia, insieme al suo clan di coetanei. A un certo punto, giunti in un rifugio, tutti si misero seduti in cerchio attorno a una tavola e qui l’Assistente Ecclesiastico iniziò a fare una chiacchierata spirituale, dove forse c’era anche qualche preghiera insieme. In questo frangente, il ragazzo se ne stette con la sedia un passo indietro rispetto le altre, in silenzio. Finito il momento spirituale, egli spiegò di non trovarsi al momento nella posizione spirituale e di fede ideali, che in quel momento aveva preferito starsene “un passo indietro” (non in disparte) e che comunque era venuto in quella route per condividere quell’esperienza bellissima insieme ai suoi amici. Nessuno lo giudicò, nessuno gli chiese spiegazioni, ma il gioco continuò, nella reciproca stima e nella ferma volontà di voler vivere insieme quell’avventura. Il rispetto reciproco, l’intelligenza e l’amicizia vinsero quell’ostacolo e a distanza di anni da quell’evento, si racconta che quel ragazzo si sia avvicinato alla fede molto più degli altri. In questo caso si trattava di un educando che aveva bisogno dei suoi tempi e che non aveva in sé differenze sostanziali. L’Assistente Ecclesiastico dovette solamente rispettare i tempi del ragazzo, aiutandolo a rimuovere da solo quegli ostacoli che gli impedivano di vivere una fede vera e concreta come gli altri. Ma se si fosse trattato, ad esempio, di un islamico? Baden Powell, in qualche modo, aveva previsto la problematica:

Lo Scautismo è una fratellanza; cioè un Movimento che non fa alcun caso, in pratica, a differenze di classe, religione, nazionalità o razza per lo spirito indefinibile che lo pervade, lo spirito del gentiluomo di Dio[21].

Questo è il fondamento di quanto stiamo per asserire. Da questo B.P. poté costruire la sua intercultura scout:

Esistono molte religioni: la cattolica romana, la protestante, l’israelitica, l’islamica, e molte altre. Ma il punto principale è che tutte adorano Dio, benché in diversi modi. Sono come un esercito che serve a un re, benché sia suddiviso in armi diverse, come la cavalleria, l’artiglieria, la fanteria, che portano uniformi diverse. Così, se incontrate un ragazzo di religione diversa dalla vostra, dovrete non essergli ostili, ma invece riconoscere che anche lui è un soldato del vostro esercito, in un’uniforme diversa dalla vostra, ma al servizio dello stesso re. [22]

In modo molto umano, riducendo le religioni, ai minimi termini di sacralità e di morale, B.P. cercò di accomunare i diversi credo nel reciproco rispetto e accettazione:

Quando incontri un ragazzo di una religione diversa dalla tua, non devi mostrarti ostile nei suoi confronti; anzi devi riconoscere che egli è come un soldato del tuo stesso esercito, per quanto in uniforme differente, e che è al servizio del tuo stesso Re. In Scautismo per ragazzi ho dato una piccola definizione della religione, che è estremamente chiara e semplice. La religione non è che: -primo: credere in Dio; -secondo: far del bene a l prossimo. Ecco altre due o tre semplici definizioni della religione che persone che si interessano di noi scouts mi hanno gentilmente inviato: -la religione è vita, non un insieme di cerimonie; -la vera religione è preoccuparsi concretamente per gli altri e vivere santamente noi stessi; -l’essere utili agli altri è l’affitto che paghiamo per il nostro alloggio su questa terra; -finché non cessiamo di vivere solo per noi stessi non possiamo dire di aver cominciato a vivere. I nostri scouts appartengono a tutte le religioni; molti di essi provengono dai quartieri delle grandi città dove non si pratica nessuna religione, ed alcuni appartengono a religioni in cui il giorno del Signore è il sabato anziché la domenica. Ma tutti servono lo stesso Dio, e la prima promessa che hanno divenendo scouts è di compiere il loro dovere verso Dio, che è quindi il primo dovere di uno scout.[23]

Tutto questo ci serve per arrivare al nocciolo della questione:

Supponiamo, ad esempio, che una dirigente delle Guide, di religione musulmana, venga in Inghilterra e tenga ad un gruppo di Guide un discorso, nel corso del quale essa citi Maometto come l’unico divino maestro, e questo nonostante che coloro che l’ascoltano siano credenti in Cristo. Come considerereste il suo gesto? Forse mancante di tatto, o insultante, o come espressione di fanatismo. Certo non sarebbe un gesto molto gentile, e tanto meno in armonia con l’articolo della nostra Legge, che parla della cortesia. Eppure ho saputo di drigenti di Guide e di Scouts di religione cristiana che hanno fatto esattamente la stessa cosa in presenza di ebrei o di induisti o di persone di fede diversa, e queste da parte loro, troppo educate per muovere obiezioni, e ciò nonostante imbarazzate da un simile modo di agire, hanno dovuto adattarsi alla situazione. Una volta, ad una riunione nella quale si teneva uno “Scouts’Own” con la partecipazione di persone di fede diversa, un oratore evitò con cura di riferirsi troppo a Cristo, e fu accusato da alcuni presenti di averLo rinnegato. Egli si difese dicendo che riteneva piuttosto di essere stato fedele a Cristo mostrando un rispetto cristiano per i sentimenti di altri che, insieme a lui e nello stesso modo, erano figli di un solo Padre, sotto qualunque forma essi rendessero omaggio a Dio. [24]

Baden Powell non sta parlando di rinunciare a parlare di Dio e non sta rinunciando alla dimensione spirituale dello Scoutismo, ad esso intrinseca: se dicessimo questo, tradiremmo i suoi scritti e nuovamente, per l’ultima volta, citiamo quanto ha da dire B.P. in proposito:

Finché non baseremo la nostra educazione su un fondamento più spirituale, invece di accontentarci della pura accademia, e ci occuperemo più della formazione del carattere, che del livello delle conoscenze, avremo solo una patina.[25]

Non parlare di Dio per paura di offendere qualcuno non è in linea con quanto insegnò B.P. Il Metodo Scout si trova di fronte ad una sfida educativa che non può bypassare con il silenzio e con la rinuncia a qualcosa di così prezioso come il parlare di Dio. Se da un lato la preghiera individuale e il raccoglimento sono momenti preziosi per la persona, d’altro canto la diversità di religioni all’interno dello stesso gruppo, dello stesso clan, ecc.. devono essere visti come occasioni di crescita e di confronto e non certamente come pastoie che rallentano la spiritualità di una religione o dell’altra. Se pensiamo questo, partiamo con il piede sbagliato e non gettiamo il cuore “aldilà dell’ostacolo”, come insegnò il fondatore. Lo Scoutismo in sé accomuna tutte le culture e le religioni e non è nato per porsi barriere: questo lo capirono tutti quei regimi dittatoriali che invece, ponendo confini ben precisi come quelli nazionali, politici, razziali e di libertà di pensiero, soppressero sempre questo metodo educativo, giudicato molto pericoloso per le sue idee di apertura mentale e di fratellanza. Se da una parte è vero che certe religioni, certi usi e costumi sono davvero distanti tra di loro, dall’altra i bambini non tengono conto di differenza alcuna, perché ancora non sono stati impregnati di sovrastrutture sociali e i ragazzi e le ragazze non giudicano invincibili queste differenze. Il bello sta proprio in questo: la differenza arricchisce e ascoltare l’altro che parla di sé liberamente, con la sicurezza di non essere giudicato da un “fratello di strada”, fa scaturire in sé la voglia di conoscersi meglio. A giudizio di chi scrive l’arma vincente è quella del considerare ogni differenza “inter pares”: in quest’ambito di educazione non si giudica quale religione o quale costume siano migliori, ma si accetta la differenza come frutto di una diversa sensibilità, imparando a conoscerla e a rispettarla. Non si è per forza migliori se si è numericamente superiori, perché le contingenze della vita potrebbero mutare lo status quo. Si dovrebbe piuttosto inculcare la verità del fatto che la forza sta nelle idee e che tra più idee diverse, la migliore potrebbe essere l’incontro di queste. I modi per far comprendere questo sono moltissimi ed hanno il limite della fantasia e della capacità pedagogica: se Baden Powell puntava moltissimo all’educazione tramite l’ambiente circostante, non sarebbe difficile, ad esempio, nell’imbattersi in un arcobaleno, far notare agli educandi che esso non sarebbe tale e così bello se fosse di un colore solo. L’ambiente favolistico, dell’esempio personale, della natura con le sue sorprese, le citazioni letterarie, gli esempi di vita vissuta e il dialogo costante e fattivo possono aprire la mente ad una intercultura prolifica e non fine a sé stessa, ma sempre protesa ad un’apertura non solo orizzontale, ma alla dimensione verticale di trascendenza. In tutto questo il sedicente ateo o l’agnostico saranno chiamati in causa dall’interrogativo degli altri, che ascolteranno a loro volta i motivi di chi non crede. Il caso del non credente è particolare in sé, perché non ha il fondamento di una fede in Dio, né in alcuna categoria di trascendente. Se l’educando non vorrà parlare del problema, magari perché afferma di non esserne interessato, non dovrà essere spinto a farlo: egli farà le normali attività scout che di per sé, spesso, spingono l’individuo a porsi le domande di fondo. Basterà solo questo, nel massimo rispetto delle scelte e delle convinzioni personali: nei momenti di spiritualità, anzi, la sedia un passo indietro sarà anch’essa una testimonianza, l’eco di una diversità da non sottovalutare e da abbracciare in un movimento educativo che fu studiato per tutti. L’ateismo o l’agnosticismo non saranno a loro volta barriere per la comprensione reciproca, ma la dimensione morale di fondo sarà il fondamento comune su cui costruire un viversi ed accettarsi in un abbraccio dove l’amore verso il prossimo è elemento in cui tutti si riconoscono indistintamente. Si sottolinei anzi che la diversità è intrinseca nell’essere umano, che su questa fonde la sua individualità: il Movimento Scout non è una sorta di “balillismo” che uccide la diversità, ma il gruppo di pari, la sestiglia, la squadriglia o la pattuglia, è fondato su tante diversità che convergono verso un fine comune e condiviso. Lo stesso camminare per monti e per valli, testimonia la diversità dei paesaggi che mutano anche in natura, dove ogni panorama manifesta la sua peculiarità e il suo intrinseco fascino. Gli stessi animali del “libro della giungla” di R.Kiplyng si dicevano amichevolmente, pure nella diversità delle specie, “siamo dello stesso sangue, tu ed io”: in questo libro, pur non tenendo conto dell’idea di Dio, vengono comunque insegnati valori come quello dell’amicizia, dell’amore, della fratellanza, del valore, della famiglia, dell’onestà e della cortesia e dei valori che fondano la società. È molto meglio tutto questo che magari tirare un ragazzo ateo o agnostico verso una religione o verso l’altra: una scelta che non farebbe che testimoniare la divisione. Lo Scoutismo di Baden Powell invece vuole che tutti siano indistintamente uniti. Al “tu non credi perché non capisci”, e al “Maometto è l’ultimo profeta e Cristo non è il figlio di Dio”, si sostituirà un “parlami di te e di quello in cui credi” e “parlami di Maometto”, “parlami di Cristo”, “parlami del Dio come lo concepisci tu”. Si troveranno moltissimi punti di contatto intorno cui discutere e si comprenderà che non per forza quello che è differente dal nostro mondo è per forza tutto sbagliato. Se così non fosse, i tentativi di dialogo interreligioso e di dialogo ecumenico (perorati tra l’altro anche da B.P.) non avrebbero ragione d’esistere.

3.3. L’intercultura e l’educazione all’altro

Stessa cosa sarà per l’intercultura in sé, frutto dell’incontro di più razze, lingue, usi e costumi, in vista di una comune cooperazione mondiale tra le nazioni: se la seconda guerra mondiale sembrò sconfessare le speranze di B.P., che morì nel 1941 con il rimpianto di non essere stato ascoltato, ci si rese poi conto che le parole del fondatore dello Scoutismo furono profetiche, come quelle di tutti i profeti di pace. Nel gennaio 1935, B.P. inviò un messaggio radiofonico al popolo americano:

La rivelazione che mi ha dato più sorpresa e soddisfazione nell’intero raduno [del jamboree[26] australiano]è stato il notevole spirito di amicizia mostrato reciprocamente da tutte le varie razze ivi riunite. C’è stato uno scambio continuo di disponibilità reciproca e di gesti di allegro cameratismo. E i ragazzi si sono resi conto della fraternità del Movimento mondiale cui essi appartengono. Quale contrasto con i sospetti e le animosità reciproci che attualmente prevalgono tra i politici europei. Questi sentimenti sembrano derivare in grande misura da un gretto ed esagerato nazionalismo e dalla paura, fomentati ulteriormente da una stampa di bassa lega alla ricerca di titoli sensazionali: tutti fattori che contribuiscono a precipitare la guerra, senza che ve ne sia alcun motivo reale. Eppure se l’educazione e la religione avessero condotto questi stessi uomini politici o i loro popoli a mettere in pratica la fiducia e la buona volontà reciproche non vi sarebbe alcun pericolo di guerra. Con un’adeguata educazione del ragazzo non vi dovrebbe essere molto bisogno di prigioni o di dottori; con un’adeguata educazione delle nazioni non vi dovrebbe essere bisogno di eserciti o di marine militari. L’educazione ha oggi il difficile compito di insegnare ai giovani come vivere in un momento in cui l’evoluzione sociale e le condizioni di vita cambiano così rapidamente; ma è evidente che gran parte della formazione scolastica tradizionale è scomparsa, e anche che, in un senso generale, la razza umana non è ancora civilizzata. Non fa particolarmente onore né a noi né al nostro modo di educare i nostri figli il fatto che si debba ancora ricorrere a metodi primitivi per la risoluzione dei nostri litigi. Molti Paesi insegnano ai loro figli il patriottismo, ma troppo spesso si tratta di falso patriottismo, che si contenta di agitare bandiere e di spingere in alto il proprio Paese sopra gli altri. Uno spirito più ampio e generoso è necessario per un patriottismo più autentico, tale da riunire, con la pratica di uno spirito di reciprocità disinteressata, i vari settori e fattori insieme in un tutto unico, e tale da estendere tale spirito così da guardare al di là delle frontiere o degli interessi particolari del proprio Paese e da considerare con comprensione le aspirazioni degli altri. Il vero patriottismo saprà vedere le cose dal punto di vista del proprio vicino oltre che dal proprio, e cooperare con lui anziché prepararsi a combatterlo. Naturalmente penserete che questo idealismo sia assai bello, ma utopistico e non attuabile. Dobbiamo ricordare tuttavia che nessun serio tentativo è stato fatto finora per istillare tali idee nella mente e nel modo di agire della generazione attuale o di quella futura, le quali non sono mai state educate a tale spirito. È proprio questo tipo di mentalità che cerchiamo di sviluppare negli Scouts e nelle Guide, con risultati fino ad oggi estremamente incoraggianti. Noi insegniamo loro, oltre alla salute fisica e un carattere forte, anzitutto il patriottismo per il loro Paese, il sostegno alle autorità costituite e la ricerca dell’unità e della concordia all’interno dei suoi confini; in un secondo luogo, la buona volontà e la cooperazione coi loro fratelli degli altri Paesi. Per promuovere questo secondo punto teniamo ogni quattro anni un raduno internazionale o “jamboree”, in cui i contingenti vengono da tutti gli altri Paesi per accamparsi insieme e imparare a conoscersi e a comprendersi a vicenda e formare amicizie reciproche. La sola base vera e solida per la pace nel mondo è lo sviluppo di un carattere aperto e generoso negli stessi popoli, che renda loro possibile di formare una comunità unita nel loro Paese e allo stesso tempo essere dei vicini amichevoli e pieni di simpatia per gli altri popoli. Il sospetto reciproco e la paura attualmente esistenti tra le nazioni devono essere sostituiti da comprensione e amicizia reciproca. L’esperimento scout ha mostrato che ciò è possibile, se i popoli sono educati a questo spirito in giovane età.[27]

Questa lunga citazione è importante perché B.P. parte in un discorso discensionale dalla pace nel mondo, che sembra un utopia fritta e rifritta, sbandierata sempre da tutti, alla sua attuazione pratica, veramente possibile, che cancella dalla sua idea ogni traccia di utopia: l’educazione al rispetto verso l’altro, all’amicizia, alla simpatia, alla conoscenza dell’altro tramite esperienze di amicizia internazionale che impediscano ogni sorta di sospetto tra Paesi, perché superato da una rete di amicizie e di profondo rispetto umano tra i cittadini. Il discorso del 1935 fu profetico: quello che non riuscirono a capire i politici di allora, lo compresero persone di ampie vedute come Baden Powell che, forgiato da giovane attraverso le esperienze della guerra, ne aveva vista l’inutilità. Non si trattò di un pacifista di bassa lega che non sa quel che dice e che urla “pace” senza un programma di fondo e senza contezza di quel che veramente accade nel mondo: non bastano i cortei per far cambiare idea alle persone, ma è l’educazione al rispetto e all’intercultura, attraverso metodi chiari, semplici e diretti, che si ottiene una visuale diversa dell’altro. La “marcia in più” del pensiero di B.P. sta poi nel fatto che i suoi proclami alla pace non sono frutto solamente di una filantropia e di una profonda umanità, ma attingono dai precetti evangelici che si possono cogliere nelle sue parole. Non dimentichiamo che il suo viaggiare per il mondo e il suo parlare di solidarietà, di amore, di fratellanza tra i popoli, di amicizia, di servizio al prossimo, sono chiari richiami agli insegnamenti gesuani, verso cui B.P. ebbe una fede accesa e sentita. La sua fu una “catechesi dal basso”: il fondatore non amava i sermoni che annoiavano i ragazzi, ma attraverso la pratica quotidiana di un amore condiviso e del servizio verso il prossimo, attraverso il gioco, la natura e la strada, portava i ragazzi e le ragazze allo stesso messaggio, impregnandoli in una comune condivisione d’intenti e a un comune sentire Dio, nella comune realizzazione del Regno escatologico. B.P. non si sottrasse quindi nemmeno dai suoi impegni di catechista, riconoscendo poi i suoi limiti teologici quando demandava ai singoli pastori le “cure particolari” delle singole professioni religiose. Il forte messaggio comunque, fu proprio che non c’è novità senza differenza e che senza la differenza da conoscere la vita sarebbe piatta e noiosa: ci s’innamora e ci si affeziona all’altro non tanto perché è uguale a noi, quanto perché amiamo dell’altro le novità che porta e le esperienze che è in grado di trasmetterci. Se non ci fosse differenza e tutti fossimo uguali e non ci sarebbe nemmeno bisogno del dialogo.

  1. CONCLUSIONE

B.P. non volle assolutamente affermare (e non lo vogliamo fare nemmeno noi) che ogni fede e ogni cultura sono uguali alle altre e che l’una vale l’altra: questo discorso non avrebbe portato a nulla, se non a un banale relativismo, ben lontano dalle intenzioni del fondatore. Baden Powell, anzi, incoraggiò l’educazione alla fede da parte di ogni singola religione, ma il suo punto fermo, poi, stette nel ricordare ai singoli che esistono gli altri e che tutti, questo si, hanno pari dignità perché figli dello stesso Padre. Per quanto riguarda la fede cristiana, poi, Giovanni Paolo II, intuendo la profonda pedagogia del Chief, il 2 agosto del 1997, in occasione della route nazionale delle comunità capi dell’ AGESCI (ma ovviamente il messaggio era rivolto a tutti gli scout cattolici), disse:

Il vostro fondatore, Baden-Powell, amava indicare i due grandi libri che dovete sempre saper leggere: il libro della natura e il libro della Parola di Dio, la Bibbia. Si tratta di un’indicazione sicura e feconda. Amando la natura, vivendo in essa e rispettandola, imparate ad unire la vostra voce alle mille voci del bosco che lodano il Signore; immersi in essa continuate a celebrare i vostri momenti di preghiera e le vostre liturgie, che resteranno nel cuore dei giovani come esperienze indimenticabili. Coltivando la vostra tradizione di amore e di studio della bibbia, troverete sentieri e strade sempre nuove per una catechesi originale ed efficace, inserita nel cammino di catechesi della Chiesa italiana e caratterizzata dalla ricchezza dei simboli e delle occasioni proprie dello scautismo.

Non se ne esce: lo Scoutismo è religioso ed aperto all’intercultura. Non creerebbe scandalo, in un riparto misto dal punto di vista religioso e di culture, dedicare anche uno spazio ad una preghiera comune all’unico Dio, dove si imparerebbe sin da piccoli ad elevare preci universali, in cui tutti gli uomini si ritrovino. Stare in silenzio vicino a un Buddhista, poi, o a un indù, significherebbe unirsi in quel sacro silenzio e meditare i misteri della vita: la meditazione è un punto d’incontro tra cristiani e Buddhisti e il silenzio è un momento rigeneratore per ambedue. Punti d’incontro ce ne sono: il non trovarli significa non cercarli per pigrizia o per paura. Andare incontro all’altro non mina la propria identità, ma la porta verso l’identità dell’altro, in un fecondo e scambievole abbraccio umano e sincero. Si provi a dare una tazza di cioccolata calda ai ragazzi: sicuramente l’accetteranno! Si dica poi loro che se non accettassero l’alterità, non dovrebbero nemmeno bere quel buon nettare scuro, perché ci è stato dato da mani con un colore diverso dal nostro, molto lontane, che non hanno la nostra cultura. Eppure il loro cacao ci piace! Questo significa che lo straniero ha tante cose da donarci, che noi non abbiamo. L’altro, lo straniero, non è quindi per forza il nemico, ma le sue mani sono spesso piene dei doni di un’alterità che altrimenti non conosceremmo mai: se ci pensiamo, furono proprio degli stranieri che, venuti da lontano, portarono a un bambino ebreo tre doni non di poco conto: oro, incenso e mirra; tre sacerdoti zoroastriani viaggiarono per mesi per arrivare in una terra straniera e per adorare l’unico e comune Dio. Solo dopo aver battuto questo sentiero, potremo dire, un giorno, di poter lasciare questo mondo un po’ migliore di come lo si trovò.

  1. BIBLIOGRAFIA

1. POWELL, Baden, Scoutismo per ragazzi. Roma: Fiordaliso, 2011, 372 p. (I libri di B.P.);

2. POWELL, Baden, Taccuino, scritti sullo Scautismo. Roma: Fiordaliso, 2001, 351 p.;

  1. POWELL, Baden, L’educazione non finisce mai. Roma: Fiordaliso, 2004, 60 p.;

4. POWELL, Baden, Cittadini del mondo. Scritti sulla pace. Roma: Fiordaliso, 2006, 106 p.;

5. POWELL, Baden, La strada verso il successo. Roma: Fiordaliso, 2007;

6. POWELL, Baden, Il libro dei Capi. Sussidi per il Capo nello Scoutismo.Roma: Fiordaliso,116 p.;

7. POWELL, Baden, La mia vita come un’avventura. Roma: Fiordaliso, 2003, p.538 (I libri di B.P.);

8. GANDOLFI, Annunzio, Fuoco di bivacco. Storie di leggende scout. Roma: Ancora, 1988, 160 p;

9. POWELL, Baden, Lessons from the Varsity of Life. Flemington (New Jersey, Usa):Stevens Publishing, 1992, 336 p.;

10. SANTERINI, Milena, Il racconto dell’altro. Educazione interculturale e letteratura. Roma: Carocci, 2008, 148 p. (studi superiori).

[1] Ben sappiamo che nello Scoutismo il Metodo educativo in quanto tale non è rivedibile né personalizzabile, ma tutto è previsto negli scritti e negli insegnamenti del fondatore, per cui ogni tentativo di rimodellamento che ne tocchi i capisaldi metodologici è da ritenersi assolutamente sbagliato. Chi vuol praticare lo Scoutismo, quello vero, deve applicare gli scritti e gli insegnamenti di Baden Powell; fare il contrario rischierebbe di far sfociare la propria opera in qualcos’altro dallo Scoutismo, che non è Scoutismo. È per questo che il fondatore, chiamato più amichevolmente “B.P.” o “Chief”, insisteva affinché tutti i Capi Scout, una volta all’anno, rileggessero lo “Scouting For Boys”, il manuale base dello Scoutismo, e per quanto possibile anche gli altri suoi scritti (innumerevoli). Dovendo difendere ancor di più la rigidità del Metodo (nelle sue linee guida) e la non sindacabilità di determinati precetti fondanti, si ricordi anche che B.P. istituì i Campi Scuola per brevettare i Capi Scout a livello mondiale, per uniformare ovunque il suo Metodo. I Lupetti, gli Esploratori, le Guide, i Rover e le Scolte, nel rispetto delle sensibilità culturali e religiose di ogni popolo, sono gli stessi dappertutto, pur con le fogge e le varianti più disparate delle uniformi. Il “libro della giungla”, ad esempio, sarà narrato ai piccoli lupetti, sia in Canada sia in India.

[2] SR, 308

[3] POWELL, Baden, L’educazione non finisce mai. Roma: Fiordaliso, 2004, 60 p., p. 43

[4] POWELL, Baden, Giocare il Gioco. Roma: Fiordaliso, 2003, 204 p., p. 144

[5] B.P., da ex generale dell’esercito inglese, fu tacciato di militarismo nei confronti dei ragazzi. In realtà con Ptria, egli intendeva l’amor patrio del cittadino che fa il suo dovere. A volte, per comprendere il linguaggio di B.P. dobbiamo anche calarci nel contesto degli inizi del ‘900. Il concetto di Patria lo vedremo comunque più avanti, dalle vive parole del fondatore.

[6] POWELL, Baden, Cittadini del mondo. Scritti sulla pace. Roma: Fiordaliso, 2006, 106 p.,p.71

[7] TA, pp. 155-156

[8] POWELL, Baden, La strada verso il successo. Roma: Fiordaliso, 2007, pp.23-24

[9] SR, 38. Quasi tutte le “chiacchierate” dello Scouting for Boys sono comunque costellate di richiami ai cavalieri.

[10] «Non vogliamo una specie di processione imposta ai ragazzi, ma una volontaria elevazione dei loro cuori in ringraziamento per le gioie delle vita, e un desiderio da parte loro di ricercare ispirazione e forze per un più grande amore e per il servizio del prossimo. Un servizio di questo tipo dovrebbe avere sul ragazzo un effetto pari a quello di qualsiasi servizio in Chiesa se nel condurlo ricordiamo che i ragazzi non sono come gli adulti e se l’organizziamo in modo che possa essere seguito dai più giovani e dami meno istruiti dei partecipanti. La noia non ha niente a che vedere con la pietà religiosa né genera alcuno spirito religioso. Per interessare i ragazzi il servizio deve essere una funzione festosa e varia. Inni brevi (tre strofe sono in genere sufficienti: mai più di quattro); preghiere comprensibili; un buon discorso di uno che capisca realmente i ragazzi (una chiacchierata familiare piuttosto che un sermone), che afferri i ragazzi e durante il quale essi possano ridere o applaudire a seconda della loro inclinazione, e che quindi li spinga ad interessarsi effettivamente a ciò che vien detto. Se un uomo non riesce a dire ciò che vuole a ragazzi attenti in dieci minuti merita di essere messo al muro! E se non riesce ad avere la loro attenzione, sarebbe meglio che non conducesse alcun servizio religioso». POWELL, Baden, Il libro dei Capi. Sussidi per il Capo nello Scautismo. Roma: Fiordaliso, 1999, 160 p., pp.145-146. Poco prima, B.P. aveva asserito: «I servizi divini, le preghiere, gl’inni e specialmente i discorsi rivolti ai ragazzi dovrebbero essere più brevi possibile. Colui che è capace di mantenere l’attenzione del ragazzo medio per più di sette minuti su un argomento è un genio». Ibidem, p.115

[11] TA, 93

[12] POWELL, Baden, Il libro dei Capi. Sussidi per il Capo nello Scoutismo. Roma: Fiordaliso, 116 p., p.70

[13] Per i non addetti ai lavori: il riparto è l’alveo del metodo scout riservato a ragazzi e ragazze dai 12 ai 17 anni circa, mentre il clan è riservato ai ragazzi dai 17 anni fino ai 20/21 circa, che vivono l’esperienza dei rovers. Il fuoco è un clan per ragazze, che vivono lo Scoltismo.

[14] TA, 92-93

[15] TA, 144

[16] POWELL, Baden, Cittadini del mondo. Scritti sulla pace. Roma: Fiordaliso, 2003, p.81

[17] POWELL, Baden, La mia vita come un’avventura. Roma: Fiordaliso, 2003, p.538 (I libri di B.P.)

[18] GANDOLFI, Annunzio, Fuoco di bivacco. Storie di leggende scout. Roma: Ancora, 1988, 160 p.

[19] Vogliamo qui ricordare che il Capo Scout, specie se brevettato, non è un animatore qualsiasi, ma un educatore preparato nel Metodo Scout, che conosce psicologicamente i suoi ragazzi uno ad uno, studiandoli e misurando la loro crescita tecnica, culturale, umana e spirituale senza che essi se ne accorgano e senza la tensione del “risultato all’esame”. Qui, infatti, l’esame è continuo, come nella vita, ma filtrato dall’occhio vigile e innamorato del Capo: un amico, un fratello maggiore, una figura di riferimento.

[20] Per certi anziani del Centro Italia, tanti anni fa, se si era del Sud si era Napoletani o Siciliani: non si distingueva granché e per quello che si sentiva poi alla televisione o si leggeva nei giornali o per il semplice sentito dire, le immagini della mafia e della camorra colpivano così fortemente l’immaginario collettivo, da tacciare per mafioso o camorrista chiunque venisse dal Sud. Quest’immagine l’abbiamo anche noi italiani in certi paesi dell’Estero, dove l’italiano è visto come il “leggerone” che ama cantare, mangiare gli spaghetti e la pizza, che non ama lavorare e che, a volte, è mafioso. Da noi, ora, in Italia, vige l’idea del rumeno (quella dell’albanese sta un po’ scemando) che è zingaro, ladro, assassino solo per il suo essere rumeno: dei rumeni non ci si deve fidare perché chiedono la carità e non amano lavorare. Di nuovo siamo di fronte a delle costruzioni mentali che variano da posto a posto, da situazione, a situazione. L’italiano si fa beffa dello spagnolo che, a dir nostro, termina tutte le sue parole con la lettera “esse” e lo spagnolo si diverte a prendere in giro l’italiano che, a dir suo, termina immancabilmente tutte le parole con la lettera “i”. Il tedesco, durante la seconda guerra mondiale, era il nemico e se ancora parliamo dei tedeschi a certi nostri anziani ancora in vita, avranno brutti ricordi su quel che accadde e quindi un brutto ricordo di questo straniero, così diverso da noi, che parla una lingua incomprensibile e che ci odia. Oggi la Germania è tra le più grandi interlocutrici dell’Italia e se negli anni ’40 c’era Hitler a mettere a ferro e fuoco l’Europa, adesso un altro tedesco, Benedetto XVI, lotta per la pace e per l’uguaglianza dei popoli nel nome di Cristo: uno era lo straniero per l’eccellenza, l’altro è visto come “uno di noi”. Giovanni Paolo II, appena eletto Papa, sottolineò di venire “di un paese molto lontano” (sic). Ora i polacchi, a causa di quel grande Papa, sono visti come persone molto vicine e non sono considerati nel novero degli stranieri. Viene allora da domandarci chi sia veramente lo straniero.

[21] POWELL, Baden, Il libro dei Capi. Sussidi per il Capo nello Scoutismo. Roma: Fiordaliso, 116 p., p.105

[22] SR, 308

[23] TA, 23

[24] POWELL, Baden, Cittadini del mondo. Scritti sulla pace. Roma: Fiordaliso, 2006, 106 p., pp.63-64

[25] POWELL, Baden, Lessons from the Varsity of Life. Flemington (New Jersey, Usa):Stevens Publishing, 1992, 336 p., p.305

[26] Jamboree significa non a caso “marmellata di ragazzi”, dove la marmellata è ben amalgamata e per questo molto buona.

[27] POWELL, Baden, Cittadini del mondo. Roma: Fiordaliso, 2006 (I libri di Baden Powell), 106 p., p.85-87

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