“Ero Capo Riparto di un folto numero di esploratori… Quando fui chiamato per servire la Patria, mi prese un forte groppo alla gola… Nella mia Promessa vi era anche quella di servire “Dio e la Patria” e questo non mi faceva specie… Ma lasciare quei ragazzi, veramente mi spiaceva da morire… Comunque dovetti partire, con la speranza di rivedere, un giorno, tutti i miei ragazzi felici e in salute.. Si apriva una fase della mia vita non certamente facile, piena di perigli e di cose nuove. All’atto dell’arruolamento, vidi subito la differenza tra educazione individuale e addestramento di massa: inquadrati, rigidi come bastoni e reattivi come macchine, sordi alle urla dei nostri addestratori che pretendevano di stordire i nostri sentimenti, per trasformarci in ingranaggi di un immenso macchinario. Marciare, sparare, spazzare ed ubbidire senza condizioni, senza domande.. Eseguire senza doversi chiedere il perchè. Essere iniziati e redarguiti in piedi, sul riposo, in fila allineati e coperti, con l’ufficiale o il sottufficiale che ammoniva a gran voce, una volta per tutti. Se comprendevi, bene, altrimenti ti ingegnavi. Accadde che il nostro ufficiale, un tenente d’Accademia, fosse trasferito per compiti operativi e ci dissero che sarebbe arrivato un sottotenente di complemento: ci guardammo perchè ne avevamo visti di sottotenenti di complemento ed uno specialmente aveva trasformato il suo plotone in macchine senza pensiero: stesse facce, tutte uguali, insensibili alle urla sotto al viso, chini sotto a punizioni esemplari, per un cubo storto, per una ramazza che non aveva funzionato a dovere.
L’ARTE DI FARSI UBBIDIRE
(Di nuovo si parla di vita militare, di militarismo e di scoutismo)
Il nuovo sottotenente non si fece attendere molto: pochi giorni e fu davanti a noi, implotonati a dovere. Ci guardò… Era alto, imperioso… Sotto il cappellino due occhi azzurri che sembravano volessero comunicare qualcosa. Fece cenno al sottufficiale di fare dietro-front e cominciammo a marciare per i viali della sterminata caserma: era un comando di reggimento, il cui perimetro, cinto di garitte, mura e filo spinato, non si vedeva nemmeno. Dopo dieci minuti di marcia, arrivammo dietro ad un grande magazzino, ove, a perdita d’occhio, verdeggiava un prato il cui profumo mi richiamò subito alle uscite con i miei esploratori. Ma l’ordine di “plotone alt” mi richiamò subito alla dura realtà e dopo di che le piante dei nostri piedi ebbero sbattuto decisamente in terra, calò l’assoluto silenzio. Ci trovammo di nuovo implotonati, fermi, incolonnati e coperti, con il sottotenente davanti a noi.
Il giovane ufficiale, ci guardò di nuovo e, rivoltosi al sergente maggiore, sentenziò: “come faccio a vedere e conoscere i miei ragazzi se nemmeno ne vedo le facce?Che si mettano tutti in cerchio!” Il sergente non credeva alle sue orecchie ma, avvezzo a non replicare, con voce esitante ordinò: “avete sentito il signor tenente? Sciolti!Mettetevi in cerchio!” Così facemmo e dopo pochi attimi fu disegnato un grande cerchio di cento persone, più il tenente ed il sergente maggiore. Il tenente così esordì: “Io sono il vostro nuovo comandante di plotone.. D’ora in poi condivideremo tutto, gioie e dolori. Ma per far questo, dobbiamo conoscerci. Sapete e perchè vi ho fatti mettere così? Perchè lo facevano anche gli zulù, un popolo guerriero fiero e valoroso. Quando il capo tribù li radunava, essi si disponevano in cerchio, perchè tutti erano individui pensanti e tutti dovevano essere resi edotti di quello che si andava per fare. Un ordine spiegato nelle sue finalità, veniva eseguito con più entusiasmo e partecipazione. Essi sapevano di essere ognuno indispensabile per la buona riuscita delle sorti della battaglia.
Ognuno aveva un suo compito ben preciso e ognuno era un valoroso guerriero, non un numero di matricola. Così siete voi, che portate il vostro nome e quello del vostro casato. Seduti, per favore.” Ci mettemmo a sedere. Nessuno osò parlare chiaramente, ma il discorso del signor tenente mi fece sentire a casa e mi fece gustare sapore di cose conosciute. Chi era mai questo nuovo ufficiale? Egli ci spiegava, ci parlava, ci faceva parlare uno ad uno, ci insegnò lo spirito di corpo, ci faceva giocare per impararci a conoscere, nei nostri pregi e nei nostri difetti, per comprendere meglio il nostro carattere e le nostre reazioni quando eravamo sollecitati. Ci divise per squadre e nominò e non nominò i capi squadra, ma lo lasciò fare a noi per acclamazione, perchè dovevamo da soli comprendere chi tra noi fosse il leader. Ripeteva sempre che bisognava farci rispettare prima come persone e che il rispetto del grado sarebbe venuto fuori conseguentemente. “E’ per amore che si dà la vita”… Diceva. In breve tempo imparammo ad amare quell ufficiale ed il nostro plotone fu uno dei più preparati del reggimento.
Il Generale, un giorno, venne anche a trovarci, perchè non comprendeva come quel sottotenente fosse riuscito a cavar fuori tutte quelle buone qualità da noi. Volle assistere ad una delle nostre sessioni e scoprì come il sottotenente puntasse sul contatto umano ed i suoi metodi, ben presto, furono subito riconosciuti: il Generale, ridendo, disse al tenente: “Già lo sapevo, ma ho voluto vedere con i miei stessi occhi. Bravo, continua pure così, anche se gli altri ufficiali dicono che quello che fai non è previsto, ho sempre avuto grandi soddisfazioni dai seguaci del Generale Powell!” Fu la conferma di quello che pensavo: quel sottotenente era un Capo Scout. Non avevo mai osato chiederglielo.
Il tempo passò e fui nominato capo squadra dai miei. Il tenente venne a farmi i complimenti ed al momento di salutarlo, mi venne spontaneo di accomiatarmi con il saluto scout al berretto. Egli sorrise, tolse di tasca un vecchio giglio di metallo e me lo donò, dicendo: “Ho capito subito che eri della Grande Famiglia, ma non ti ho mai detto niente per non farlo pesare agli altri. Sono stato chiamato per un compito operativo. Non so se tornerò mai. Agli altri ancora non l’ho detto. Voglio che mi ricordi, una volta che avrai raggiunto il congedo, ai tuoi ragazzi. Tramandiamo il seme della nostra grande quercia… perchè dove arriva la sua ombra, lì c’è Pace. Buona Strada, fratello”. Il giorno dopo se ne andò e tutti piangemmo. Ma anche noi, ormai, dovevamo partire per una nuova lunga strada…