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ANNIBALE E LA GRANDE IMPRESA

da | Gen 7, 2022

Il 23 Giugno dell’anno 217 a.c., sulle rive del Lago Trasimeno, avvenne la famosa battaglia tra l’esercito cartaginese, comandato dal celebre condottiero Annibale Barca e l’esercito romano, comandato dal Console Caio Flaminio.
Le descrizioni, come per quasi tutte le battaglie riferite all’antichità, spesso sono pervenute con indicazioni sommarie e contraddittorie. Anche per questa, molti studiosi hanno formulato diverse teorie; infatti, la maggior parte di essi propende per riconoscere i luoghi descritti da Polibio e Tito Livio.
Annibale, era un generale e uomo politico cartaginese (nato a Cartagine il 247 a.c. e morto in Bitinia il 183 a.c.) figlio di Amilcare Barca. Allevato nell’odio verso i Romani dal padre, lo seguì fin dall’età di nove anni nelle campagne di Spagna e alla sua morte (229 a.c.) passò sotto il comando del cognato Asdrubale. Dopo che questi fu assassinato, fu proclamato, a ventisei anni, capo supremo dell’esercito e confermatonel comando dal senato cartaginese, nonostante l’opposizione di Annone (221 a.c.). Credette allora che fosse il momento di mettere in opera il suo piano di guerra contro Roma, la sola città dell’occidente che potesse minacciare il dominio di Cartagine.
Annibale, oltre ad un esercito agguerrito, disponeva di larghi mezzi finanziari, forniti dalle miniere di metalli preziosi e dalle risorse delle regioni spagnole. Dopo aver completato l’occupazione della Spagna compresa tra il Tago, l’Ebro e il mare, cercò il “casus belli”, con l’assedio di Sagunto (città alleata dei Romani, benchè rientrasse nella sfera d’influenza di Cartagine, stabilita dal patto dell’Ebro del 226 a.c.) e con la conseguente distruzione della città, nonostante le energiche diffide di Roma. Il rifiuto di Cartagine di consegnare il generale e di liberare Sagunto significò la guerra: era quallo che Annibale voleva.
Annibale partì da Cartagine nell’aprile del 218 a.c. con un esercito di circa 35.000 – 40.000 uomini. Valicati i Pirenei e le Alpi (punto non ancora ben identificato, tra il Piccolo S.Bernardo e il Monginevro), battè i Romani al Ticino ed al Trebbia (218 a.c.). Dopo aver svernato nella Gallia Cisalpina attraversando l’Appennino con il suo esercito (formato da Africani, marocchini, Libici, Moreschi, Barbareschi, Iberici Biscaglini Baschi ed i frombolieri delle Asturie, oltre ai Celti, popolo della Gallia) con una faticosa marcia durante la quale perdette un occhio,come per dirigersi a Roma, attraverso l’Etruria; mentre procedeva, incendiava e devastava la regione ed è facile immaginare quale impegno ponessero in questa distruzione, Cartaginesi e Galli, essendo questi luoghi ove già si avvertiva la potenza di Roma.
Annibale, dunque, raggiunto il Trasimeno, quando si accorse che il Console Flaminio lo tallonava da molto vicino, si inoltrò decisamente nella stretta di Borghetto. Egli sapeva perfettamente che doveva approfittare, senza alcun indugio, della prima mossa falsa di Flaminio per colpirlo, in quanto già conosceva la zona, avendo in precedenza sguinzagliato parte della sua cavalleria per informarlo sulle caratteristiche del terreno immediatamente a nord del lago. Il console Flaminio, da capitano prudente, tralascia di mandare i suoi cavalieri in avanscoperta per studiare e riferire la caratteristica e l’insidia che poteva presentare la zona. Montatosi il capo di arrivare Annibale sulla via di Roma e fidando del numero degli uomini di cui disponeva, pensò di sconfiggerlo su due piedi, senza aspettare il soccorso del propretore Centenio, inviatogli da collega Servilio. Dopo aver pernottato nei pressi della odierna Terontola, Flaminio entrò per le strette fatali, nella conca del Trasimeno, tutt’altro immaginando che il Cartaginese stesse guardando con un occhio solo come la belva nell’appresarsi della preda, una volta caduta in trappola.
La trappola ebbe luogo nella striscia pianeggiante di circa 9-10 km. che costeggia il lago, a forma leggermente arcuata, raccolta in un semicerchio collinare determinato da: Monte Melino, Monte Gualandro, Monte Girella, Monte Castelnovo, Monte Castelluccio, Monte Castiglione e Poggio Bandito, i cui accessi sono limitati dalle pendici meridionali di Monte Melino (stretta di Borghetto e Pieve di Confine) e Poggio Bandito (stretta di Passignano).
Annibale, costeggiando il lago, entrò in questa valle e occupò il colle di Monte Geti, prospicente l’accesso alla valle, che si presentava all’azione frontale e su di esso pose, senza particolari accorgimenti, in aperto, il campo degli africani e dei Celtiberi (circa 15.000 uomini) per chiudere il passo.
Occorreva poi guarnire tutto il semicerchio collinare, dall’attuale fattoria “il Pischiello” a Monte Melino, dislocando la fanteria leggera (circa 8.000-10.000 quasi tutti Baleari), ad oriente dell’attuale Tuoro, che oltre a flagellare il fianco sinistro delle truppe romane, doveva dare man forte alla fanteria pesante di Monte Geti; mentre ad occidente di Tuoro, dispose i Galli e i Numidi (circa 8-10.000 uomini) e tutta la cavalleria di 5-6.000 unità perchè doveva impedire l’eventuale ritirata e fuga ai Romani.
Dopo aver predisposto durante la notte, in tal modo le sue truppe e aver chiuso la valle in una morsa, attese tranquillo.
Il disegno del condottiero punico era semplice: bastava lasciare entrare la colonna romana nella lunga striscia costiera, fermarla, tagliare la ritirata alle spalle ed attaccarla in forze sul fianco in tutta la sua lunghezza.
L’alba del 23 Giugno 217 a.c. era molto nebbiosa ed una fitta foschia riduceva la visibilità a poche centinaia di metri.
L’avanguardia romana, superata la stretta di Borghetto, s’inoltrò di buon passo nella lunga striscia pianeggiante di Tuoro, seguita dai Centurioni e dai Tribuni della plebe.
Anninale, appena la maggior parte della colonna dei Romani si addentrò nella valle e già l’avanguardia era vicina e con la coda oltrepassato la stretta di Pieve di Confino, diede l’ordine di attaccare.
L’apparizione dei Cartaginesi fu improvvisa, lesercito Romano, sia perchè la nebbia rendeva difficile la visibilità, sia perchè veniva assalito di fronte, alle apalle e di fianco, fu fatto a pezzi nello stesso ordine di marcia, senza potersi difendere e quasi tradito dalla sconsideratezza del Console Flaminio.
Si combattè per circa tre ore, dappertutto ed intorno al console Flaminio, tuttavia, la battaglia fu più violenta e furiosa; finchè un Glallo Cisalpino,dal nome Ducario, roconosciuto il console come l’aggressore delle sue genti, spronò il cavallo slanciandosi dove più folta era la massa dei nemici con grande accanimento, colpendolo mortalmente con un colpo di lancia. La sua morte fu segnale ed inizio della grande fuga da parte dell’esercito Romano.
Ci furono coloro che una grande sconsiderata paura spinse a darsi alla fuga anche a nuoto; dal momento che una tale fuga era interminabile e senza speranza, o venendo meno la forza d’animo, alcuni erano inghiottiti dai gorghi e, dopo essersi invano stancati, con enorme fatica tornavano indietro nei bassi fondali e lì venivano trucidati qua e la dai cavalieri nemici che li stavano aspettando; circa seimila romani, entrati nella valle, sebbene avessero sopraffatto le truppe di Annibale schierate nel colle di fronte, avanzarono sicuri di trovar altri nemici, finchè, senza accorgersi, si trovarono isolati sulle colline. Poichè la nebbia si era dissipata, resisi conto della sventura capitata e raggruppandosi, si ritirarono in un villaggio etrusco.
Dopo la battaglia, individuati da Annibale, il Cartaginese inviò contro di loro Maarbale, suo luogotenente con gli Iberi e parte della cavalleria, per circondare il villaggio; allora, pressati da varie difficoltà, i Romani deposero le armi e si arresero a patto di essere salvi.
Annibale, quindi, lasciati liberi senza alcun riscatto i prigionieri italici, ordinò di recuperare i morti dei suoi caduti, per la maggior parte Galli, facendo cercare anche il cadavere del Console Flaminio, ma invano. Il Cartaginese non potè provvedere al seppellimento di tutti i caduti, lasciando così il termine dell’opera ai locali. Dal momentoche la battaglia fu combattuta all’inizio dell’estate, con temperatura considerevole, tale da consigliare una rapida sepoltura dei cadaveri, senza rimuoverli troppo, o per nulla dal luogo dove giacevano, si decise di bruciare tutto.
L’esercito consolare, perse circa 15.000 uomini, mentre altri 10.000, lasciati liberi da Annibale, raggiunsero Roma alla spicciolata. Da parte punica, si ebbero 2.500 caduti, oltre a quelli che morirono più tardi, in conseguenza delle ferite.
A riguardo di questa grande e tragica battaglia, Tito Livio scrisse: “questa fu la famosa battaglia del Trasimeno, una delle poche sconfitte memorabili del popolo Romano!”
A ricordo della battaglia, sulla strada statale del Trasimeno (75 bis) nei pressi del km.73 e precisamente sul ponte del fosso “Macerone” vi è una lapide con sempiternamente scolpita la seguente iscrizione:

“RICORDA O VIATORE”
che su questi colli del Trasimeno
più di XXV mila Romani morirono
per difendere contro l’astuta ferocia
del Cartaginese Annibale
l’integrità e la civiltà di Roma.

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